Lo strabismo del giornalista dimezzato

Molti giornalisti italiani sembrano affetti anche in questi giorni di morte e di lutto nazionale da un singolare strabismo.

Alcuni di loro si accaniscono per esempio a criticare e ridicolizzare certi leader stranieri, soprattutto Donald Trump, per le loro iniziali sottovalutazioni dellepidemia, ma si guardano bene dal criticare – probabilmente rimuovono dalla coscienza! – l’identica sottovalutazione dei governanti italiani, che per oltre un mese hanno continuato a rassicurare gli italiani, inducendoli ad abbassare la guardia mentre il virus circolava ed infettava probabilmente migliaia di persone, diventate poi forse qualche milione. Quegli stessi giornalisti, nonostante il record mondiale di morti italiani (al 5 aprile circa 16mila), fanno coro al governo, descrivendo la linea del governo italiano come “un modello”. Un modello? Ma scherziamo? C’è da chiedersi: si tratta di una rimozione del lutto? Si tratta di una forma di nazional-giornalismo da Paese autoritario dove la stampa non disturba il manovratore e obbedisce all’imperativo di “non fare polemiche” in nome dell’unità nazional-patriottica? O si tratta invece di una banale piaggeria filogovernativa?

Un altro caso di doppio standard è quello che vede il premier ungherese Viktor Orbán sul banco degli accusati da molti giornalisti italiani per avere dichiarato lo “stato di pericolo” (non lo stato di emergenza che – secondo la Costituzione ungherese – è una misura molto più pesante) con l’approvazione del Parlamento di Budapest. Nello stesso tempo si loda il governo italiano per aver dichiarato lo stato di emergenza senza un’approvazione del Parlamento. Si dice: “Ma in Ungheria lo stato di emergenza è stato dichiarato senza limiti di tempo, mentre in Italia è limitato a sei mesi, fino al 31 luglio”.

Peccato che si ometta di dire che è stato il Parlamento ungherese che, nell’incertezza della durata, ha preferito non riunirsi in agosto, che lo stato eccezionale durerà “finché non sia cessato il pericolo dell’epidemia” e che il Parlamento ungherese resti libero di riunirsi quando lo ritenga opportuno. Peccato che si ometta anche di dire quel che conta e cioè che in Ungheria lo stato di pericolo è stato dichiarato per prendere severe misure di contenimento del virus, mentre in Italia è stato dichiarato con una certa superficialità solo per prendere misure spettacolari quanto futili e addirittura dannose come il blocco dei voli dalla Cina e la misurazione della temperatura negli aeroporti; e che sia stato seguito da sottovalutazioni, rassicurazioni e inerzie, in evidente e patente contraddizione con lo stato di emergenza e perciò suscettibile di essere valutate forse anche come omissione di atti d’ufficio.

Un doppio standard si percepisce anche nelle ironie seguite all’infezione da coronavirus ed al ricovero in ospedale del premier britannico Boris Johnson che in precedenza, su ispirazione di un cattivo consigliere, aveva sottovalutato la letalità del virus ed era stato poi costretto ad una retromarcia. Analoghe ironie non si sono lette nei confronti del segretario del Partito Democratico, Nicola Zingaretti, che intorno metà febbraio era andato sui navigli di Milano a bere aperitivi e ostentando cartelli del tipo noi-non-abbiamo-paura e poi dovette annunciare che era stato contagiato dal virus. Delle due l’una: o si rispettano e si compiangono entrambi, o si ridicolizzano entrambi. Ridicolizzare il primo e sorvolare sulla ridanciana stupidità del secondo non dovrebbe essere lecito ad un giornalista credibile.

Ultimo caso in ordine di tempo: Massimo Giletti, ieri, 5 aprile, a Tv7 ha aggredito medici e autorità lombarde. In particolare sul banco degli accusati era l’assessore regionale al Welfare della Regione lombarda Giulio Gallera, presente come un volontario capro espiatorio in trasmissione. Sotto accusa erano le iniziali incertezze verificatesi negli ospedali lombardi di Codogno e di Alzano. Giletti ometteva di dire il fatto essenziale: e cioè che all’origine del disastro in quegli ospedali lombardi fu lo sciagurato protocollo del ministero della Salute che prevedeva i tamponi solo per chi provenisse dalla Cina. Giletti non sa che solo violando quell’insano protocollo un’anestesista di Codogno poté scoprire il famoso “Paziente 1”? Non sa che un analogo caso avvenne all’ospedale di Alzano la cui direzione sanitaria fu del tutto presa alla sprovvista dal disarmo diffuso della propaganda governativa “antiallarmista” del tempo? Non sa che fu il governo nazionale a non dichiarare la zona rossa anche ad Alzano come fu fatto invece per Codogno? Nel frattempo lo stesso Giletti restava in silenzio e sugli attenti quando Luigi Di Maio ripeteva la solita balla che il (catastrofico) blocco dei voli dalla Cina di fine gennaio sia stata addirittura “la misura più forte ed efficace possibile”. Giletti non sa? Oppure obbedisce all’imperativo di “non fare polemiche, per carità”. Ma l’imperativo di “non fare polemiche” vale solo a tenere al riparo dalle critiche il governo centrale? mentre si possono aprire polemiche e persino aggredire amministratori regionali, medici e direttori sanitari lombardi? Ancora un doppio standard.

Si potrebbe continuare con gli esempi di strabismo “doppiopesista” dei giornalisti italiani in questi giorni. Ma ci fermiamo qui. Il doppio standard dovrebbe essere escluso dall’armamentario dei giornalisti in ossequio al principio di non contraddizione su cui è fondata ogni logica, ogni buon senso ed ogni correttezza professionale. I giornalisti se ne dovrebbero guardare come dalla peste, ma evidentemente nemmeno il coronavirus riesce a trattenere molti giornalisti italiani da quello che, a ben vedere, è un vecchio vizio degli intellettuali italiani in generale. Lo prova la polemica che un vero e grande giornalista come Alberto Ronchey scatenò con gran clamore – a metà degli anni Settanta – contro quello che egli chiamava “il giornalista dimezzato”. La sua polemica, mutatis mutandis, conserva una forte attualità anche in questi giorni eccezionali di epidemia e di morte.

Aggiornato il 06 aprile 2020 alle ore 16:44