
Parte II: Il difficile approdo del lobbysmo in Italia
In Italia al termine lobby vengono attribuite connotazioni negative, identificandolo con gruppi d’interesse la cui attività è collegata a fenomeni corruttivi. Vicende come “Mani pulite”, “Expo Milano”, “P2”, invece di essere inquadrate correttamente in una sfera di degenerazione criminale, sono state presentate dai media all’opinione pubblica come il prodotto di lobby occulte; ciò ha alimentato una visione distorta del lobbysmo che gradualmente si è impadronito dall’immaginario collettivo.
A ciò si aggiunga che, nella Penisola, il concetto di “pressione” diretta o indiretta è visto negativamente perché, in una logica compromissiva della libertà sostanziale associativa dell’individuo, si pensa erroneamente che l’interesse di pochi possa “corrompere” il decisore, portandolo a compiere scelte settoriali, a detrimento della democrazia e del bene comune. Sono considerazioni del tutto opinabili, giacché in un contesto complesso ed evoluto, dove coesistono realtà e interessi sociali ed economici diversi, i lobbysti sono delle risorse imprescindibili in quanto, essendo di professionisti esperti e accreditati, da un lato mediano con i propri interlocutori e dall’altro forniscono ai decisori pubblici notizie e punti di vista essenziali, diventando in tal modo uno strumento indispensabile per il corretto processo democratico.
Il lobbysmo, tuttavia, per potersi affermare, sviluppare e contribuire al benessere nazionale, necessita di regole e consuetudini che in Italia, a differenza degli altri Paesi della Comunità europea, sono carenti o, addirittura assenti, in virtù del pregiudizio che l’affermazione del lobbismo minerebbe la democrazia. È vero, invece, l’esatto contrario: negando questa realtà e dunque opponendosi a un logico sviluppo del divenire democratico, si precipita in una palude di stereotipi che rischia di soffocare la democrazia stessa.
Tale situazione italiana, estremamente alterata, è dettata anche dalla centralità che i partiti politici hanno sempre giocato, in quanto unici soggetti e depositari del potere decisionale. Per loro, regolamentare il lobbysmo, significherebbe permettere ad altri di entrare nella stanza dei bottoni, consentendo a costoro di accedere ai processi decisionali e ciò comporterebbe un ridimensionamento dello strapotere partitico.
D’altra parte la storia del dopoguerra ha dimostrato che l’attribuire, con l’articolo 49 della Costituzione, ai soli partiti la determinazione della politica nazionale, ha comportato un regime monopolistico ad alto indice di corruttibilità. In questo processo degenerativo, non arginato dal passaggio dalla Prima alla Seconda Repubblica, ben poco effetto hanno avuto i sindacati, la cui voce è diventata col passare del tempo sempre più flebile.
Nonostante ciò resiste nell’opinione pubblica il concetto che interesse pubblico e bene collettivo debba essere una sorta di appannaggio esclusivo delle sole forme aggregative costituzionalmente garantite, quali partiti e sindacati, così facendo, però, si rischia di allontanarci da quella società aperta, di Karl Popper, ove libertà e democrazia, sono realmente tutelate, in una visione dinamica e progressiva della società stessa.
(*) Qui la prima parte del Focus
Aggiornato il 09 marzo 2020 alle ore 12:45