La proprietà privata, un argine all’espansione del potere

Mentre in Argentina Javier Milei apriva la sessione ordinaria del Parlamento e proposto in tale occasione il Pacto de Mayo, ponendo “l’inviolabilità della proprietà privata” al primo dei dieci punti per raggiungere l’obiettivo della “ricostruzione delle fondamenta dell’Argentina”; in Italia, nelle stesse ore, la Corte Costituzionale dichiarava non fondato il dubbio di costituzionalità dell’articolo 633 del codice penale, espresso dal Tribunale di Firenze, relativamente all’invasione – con conseguente occupazione a uso abitazione – di un edificio in stato di abbandono da più anni, confermando così che deve essere penalmente sanzionato colui che s’immette ed occupa un immobile altrui senza il consenso del proprietario o dell’avente titolo.

Ebbene, pur trovandosi dinanzi al medesimo istituto, il premier argentino ha rivendicato la supremazia della proprietà privata, che è stata quindi assunta come condizione necessaria della libertà individuale di scelta, della quale “la società ha bisogno […] per poter sussistere” (Mises). È, pertanto, una istituzione indispensabile alla sua sopravvivenza, ricompresa secondo John Locke nei tre principali diritti naturali: proprietà, libertà e vita. La sua difesa non è pertanto assoggettabile a limiti o condizioni, ed è necessaria anche nei confronti di chi intende violarla in nome di interessi ritenuti più alti, come ha scritto un eminente teorico del diritto del XVIII secolo quale William Blackstone: “È poi così grande il rispetto da parte del diritto nei riguardi della proprietà privata che non sarà autorizzata la sua minima violazione; no, neppure per il bene comune dell’intera comunità”. La Consulta, invece, non è arrivata a tanto, muovendosi su una strada già battuta e ritenendo che non possa essere compressa “la facoltà di godimento e disposizione di un bene spettante a chi sia ad esso collegato da una relazione di attribuzione tutelata dall’ordinamento giuridico”, nella specie proprietario, possessore o detentore qualificato, neppure quando si riferisca “anche terreni incolti, o non produttivi, nonché edifici disabitati o abbandonati”.

Tuttavia ‒ e qui si può piuttosto rinvenire il vero merito della sua pronuncia ‒ nel momento in cui ha escluso che lo stato di abbandono dell’immobile, vieppiù protratto per lungo tempo, possa limitare la rilevanza penale del comportamento di colui che lo occupi a fini abitativi, spinto dal “bisogno ineludibile […] di reperire un alloggio per sé e per il proprio nucleo famigliare”, ha posto un evidente argine al maldestro tentativo del giudice fiorentino di scindere dal diritto di proprietà un nuovo diritto all’abitazione. Che, negli intendimenti dello stesso magistrato, rientrerebbe “nel catalogo dei diritti inviolabili e tra i requisiti essenziali caratterizzanti la socialità cui si conforma lo Stato democratico voluto dalla Costituzione”, e non sarebbe più collegato unicamente alla titolarità del diritto dominicale, al possesso o a una detenzione qualificata, ma si estenderebbe senza alcun ulteriore limite o confine sino a ricomprendere altresì l’occupazione abusiva di un immobile, terreno o edificio, abbandonato da tempo. Addirittura, proprio lo stato di abbandono sarebbe da considerare come “irrispettoso della prevista funzione sociale della proprietà privata”, che scomparirebbe, non potendosi neppure ammettere “una tutela cieca e incondizionata al diritto di proprietà, a discapito del diritto all’abitazione”. Soprattutto, in relazione alla “persistente emergenza abitativa che connota la realtà italiana”. Aggiungasi che in siffatta ipotesi gli immobili sarebbero altresì fonte di “rischi e pregiudizi per l’ambiente circostante” e di alterazione dell’assetto urbanistico del territorio.

Per effetto di ciò, il nuovo diritto che deriverebbe dall’indicata scissione finirebbe infine per ingrossare ulteriormente l’esercito dei cosiddetti beni pubblici, alla cui fornitura, sembra pure serpeggiare nell’ordinanza di remissione alla Corte, sarebbe tenuto lo Stato, trattandosi di finalità che i privati  non potrebbero perseguire o non potrebbero farlo con profitto, e di servizi il quali, per varie ragioni, non possono essere forniti – o non possono esserlo in modo adeguato – dal mercato.

È bene rammentare che, quasi sino allo spirare dell’Ottocento, il confine che appariva apprestato per demarcare l’area di intervento delle pubbliche autorità nella fornitura di detti beni era sembrato sicuro, tant’è essa poteva agevolmente desumersi dalle parole di Adam Smith, secondo cui lo Stato deve solamente

1) Proteggere la società dalla violenza e dall’invasione di altre società indipendenti;

2) Proteggere per quanto possibile ogni membro della società dall’ingiustizia od oppressione di ogni altro membro, ossia [... deve] instaurare un’equa amministrazione della giustizia;

3) Creare e mantenere certe opere pubbliche e certe istituzioni pubbliche, che non potranno mai essere create e mantenute dall’interesse di un individuo o di un piccolo numero di individui, perché il profitto non potrebbe mai ripagarli del costo.

Nel secolo successivo, tale frontiera è stata però scardinata allorché, da un lato, è stata allargata la sfera dell’intervento pubblico, favorita dalle interferenze del potere politico e dalle sistematiche prescrizioni della legislazione, la quale ha consolidato “l’idea che non ci sia nessun limite ai poteri del legislatore” (Friedrich von Hayek): si assiste infatti alla produzione a getto continuo di leggi e regolamenti che hanno imbrigliato e scoraggiato ogni iniziativa; dall’altro, si sono diffuse le teorie economiche (in particolare, di ispirazione keynesiana), che hanno posto in discussione la regola del bilancio pubblico in pareggio e aperto la strada a quella che James M. Buchanan e Richard E. Wagner hanno chiamato democrazia in deficit, che dal punto di vista strettamente economico, ha prodotto un rapido e continuo aumento della spesa pubblica. Entrambe le cose hanno determinato la dilatazione, peraltro continua e inarrestabile, della categoria dei beni pubblici, che sono stati utilizzati alla stregua di un “cavallo di Troia” dell’interventismo statale, ampliando a dismisura le competenze in materia economica e sociale  del potere pubblico ed esteso la sua l’attività ri-distributiva: lo Stato è così diventato “massimo” e si è estesa la sua presenza pervasiva nella società, che rappresenta una grave minaccia per la libertà individuale di scelta, la quale viene così notevolmente limitata.

È questo uno dei fenomeni più significativi del nostro tempo ed è un processo di espansione che al momento appare inarrestabile. Al quale occorre però porre rimedio. È necessario, cioè, limitare il potere pubblico; il che non equivale a farne a meno. Come Ludwig von Mises ha rilevato: “Quel che caratterizza il punto di vista liberale è l’atteggiamento nei confronti della proprietà privata e non l’avversione per la persona dello Stato”; mentre Hayek ha aggiunto che: “Se tutti devono essere quanto più liberi, la coercizione non può essere interamente eliminata, ma soltanto ridotta al minimo indispensabile, per impedire a chicchessia […] di esercitare una coercizione arbitraria a danno di altri”.

Il potere pubblico è pertanto insopprimibile. Tuttavia, lo stesso, non può assumere le dimensioni dello Stato massimo, né sostituirsi ai consociati in quello che essi possono fare autonomamente, ma deve limitarsi a svolgere una funzione di servizio nei confronti della libera cooperazione sociale volontaria. Ossia: al potere pubblico deve essere demandata la “produzione di sicurezza”, ma i bisogni devono essere soddisfatti tramite la libera cooperazione sociale.

Il che, espresso in altri termini, equivale a dire che la casa è un bene economico, la cui fornitura non può che essere assicurata dal mercato. Il suo funzionamento non ostacolato con normative restrittive, come quelle sulla zonizzazione e sul controllo degli affitti, garantirebbe un’offerta sufficiente per soddisfare la domanda e assicurare agli acquirenti-inquilini - consumatori, prezzi e condizioni migliori possibili.

In un contesto di libertà, infatti, i proprietari e i costruttori, in concorrenza tra di loro, verrebbero incentivati a produrre maggiore offerta, a offrire migliori condizioni, servizi aggiuntivi, innovativi, ecc., per attirare più clienti ed espandere la loro quota di mercato. I prezzi, ovviamente, verrebbero spinti verso il basso e consentirebbero così a un maggior numero di persone di acquistare o prendere una casa in affitto o di trasferirsi velocemente in un’altra. Il risultato finale avrebbe effetti benefici per l’economia nel suo insieme, come del resto conferma la riforma Milei in Argentina, della quale si è accennato in apertura.

Aggiornato il 12 marzo 2024 alle ore 10:06