Silvio Berlusconi: esistere per vivere

Quando cessa l’esistenza un personaggio, una personalità, avvertiamo la morte, che non è uguale per tutti, anzi è proprio la morte a differenziarci. Talune morti le sentiamo, di innumerevoli morti non percepiamo la presenza dell’assenza. La morte è tanto più crudele, tragica, quando ci fa mancare persone, personalità presenti nella nostra vita non sempre direttamente e però intensamente. Così la morte di Silvio Berlusconi. Non sarà facile, per niente, tutt’altro, abituarsi alla non presenza vitale di Berlusconi. Decenni e decenni, nel nostro Paese e non soltanto nel nostro, si era fatto popolare, intrinseco al popolo, sentito dal popolo, amato e non amato dal popolo. Non la notorietà, ma l’interiorizzazione. È il massimo che possa raggiungere un uomo, quando il popolo lo sente come suo esemplare, si immedesima nell’odio e nell’amore. Berlusconi era comunicativo, facile a essere compreso, chiaro nell’esposizione, sentiva quel che diceva e trasmetteva il sentire, dava l’impressione dell’uomo che supera gli ostacoli, non affermativo senza ostacoli ma sugli ostacoli. Dimostrava quel che diceva, facendolo. E questa è una rarità: le parole unite ai fatti.

Che si manifestasse nello sport, che si manifestasse nella impresa dei mezzi di comunicazione, o in politica, diceva e compiva, compiva e diceva. Si compiaceva di riuscire ma non compiacimento passivo, il compiacimento di chi vuole conquistare ancora, non si fermava, più risultati, ancora, ancora, l’infinito lo doveva inquietare, come tutte le personalità realizzative di sicuro sentiva il nulla, e appunto per sottrarsi al nulla operava. È la piccolezza consapevole che aspira alla grandezza in un empito senza raggiungimento ma che spinge inesorabilmente. L’essere stato amato dalla amatissima madre rivestì Berlusconi di fede in sé. Il prediletto dalla madre è un conquistatore, dice Sigmund Freud, e Freud è veritiero. E per continuare in psicoanalisi, fondamentale stabilire un ideale dell’Io ben difforme dall’Io ideale. Raggiungere i vertici di se stesso (ideale dell’Io), proporsi una meta ulteriore, non delirare di essere chi non sei immaginando di esserlo (Io ideale).

L’esempio tremendo di questa alterazione la conosciamo in Friedrich Nietzsche, tutta un’esistenza a porre l’ideale dell’Io, il superamento perpetuo di sé, superare l’uomo, e infine il delirio, si immaginò dio, un superuomo superuomo dei superuomini. Niente di ciò. Berlusconi non delirò. Fece. E divenne ideale dell’Io di molti italiani e non soltanto italiani, mai Io ideale. Di uomini deliranti sono pieni i cimiteri, gli uomini deliranti trascinano i popoli nel loro delirio. Quindi la renitenza nei suoi confronti è un errore. Berlusconi fu misurato, non avventato, realistico, diede il meglio in politica estera, amava la pace, da liberista osservante credeva che il commercio avrebbe favorito la pace, appunto, segnalò il pericolo cinese, ritenne europea la Russia, temette la disgregazione di Paesi africani utili all’Italia. Comprese che la sinistra ormai degradava verso la irregolarità sessuale, genetica, permissiva, senza riferimenti sociali organici con il proletariato del XXI secolo, senza costituire alternativa costruttiva, e con la coscienza sociale appagata dall’accoglienza immigrativa. Quindi ritenne indispensabile stabilire un centrodestra conservativo della civiltà occidentale. L’aver assimilato a questo compito anche la Destra, moderandola, fu un risultato apprezzabile. In questo campo, specie il campo culturale, si doveva, deve, si dovrà fare assai di più, assai meglio, aver coscienza radicale di quel che vogliamo salvare, della nostra Europa come Europa e soltanto Europa. E nostra.

Lo ricordo in una cena che Adolfo Urso offrì nel Palazzo Doria Pamphilj, in via del Corso, a Roma. Piccolo, volto reciso, collo piantato sul busto, di toro combattivo e con la trasmissione dell’energia alla testa, gli occhi scuri, fermi, asciutti, mani grandi, mosse, fattive, una figura concentrata, in se stesso, un Io. Parlavo con Antonio Martino, Berlusconi lo chiamò e Martino si precipitò da lui. Ma non come obbediente, amichevolmente. Una sera Domenico Fisichella venne da me a presentare un suo libro, mi pare, poi andammo a piazza del Popolo, Berlusconi e Gianfranco Fini tenevano comizio, Fisichella montò sul palco e Berlusconi lo salutò con questa frase: “È arrivato il professor Fisichella che ci fa sempre ricordare che è un professore”. Il rapporto tra intellettuali e politici è sempre, giustamente, problematico.

Ho vissuto la malattia che Berlusconi ha vissuto. Suppongo quel che ha sentito, pensato. Quando, solo, nella stanza, il mondo sparisce, e tu, proprio tu, immagini che la vita, la tua vita, ti lascerà. Hai fatto, se hai fatto, hai vinto, se hai vinto, ma non vincerai la morte. Chi sa se Berlusconi pensò che, combattivo come era stato, non avrebbe vinto la morte. Vi è un istante, quell’istante, ed anche le persone erculee, si riconoscono sconfitte. La considerava una sconfitta, l’accettava come naturale, la poneva tra i disegni di un sovrano universale? Gli apparve l’Ombra Materna e gli disse che lo attendeva? Morire per chi tanto amò vivere è un controsenso. Berlusconi si mutò in egiziano dei millenni lontani: la morte non c’è. C’è una vita diversa. Costruì un mausoleo, rifugio dei suoi cari, anche per gli amici, tombe faraoniche, la Valle dei Re e delle Regine, e in quel luogo di urne e cenere, sostare secoli, millenni. Non è la vita ma è la possibilità di amare per generazioni colui che amò tanto vivere! Se dovessi stringere la considerazione ecco che scriverei e scrivo: amò la vita e fece amare la vita! Non si limitò ad esistere, ma esistendo, visse!

Aggiornato il 17 giugno 2023 alle ore 13:41