Non sostituzione etnica, ma sociale

Sempre sul tema aperto dalle dichiarazioni del ministro dell’Agricoltura, Francesco Lollobrigida. Come al solito, il contributo delle opposizioni si limita a criticare la scelta lessicale, invece di dialogare sui contenuti. Così come per la condanna della locuzione “carne sintetica” che, se più correttamente sostituita da “carne artificiale”, non susciterebbe, credo, meno perplessità.

Tornando al punto, quella che è in corso non è sostituzione etnica ma sostituzione sociale: esportiamo cervelli e importiamo braccia. Le nostre università formano eccellenze, che poi vengono regalate ad altri Paesi dove il merito viene meglio valorizzato. Quanto alla demografia, il problema non è, tanto e solo, la decrescita della popolazione, quanto il peggioramento del rapporto lavoratori/popolazione inattiva. Da un lato, abbiamo il decremento nascite, dall’altro l’aumento dell’aspettativa di vita e, quindi, della popolazione anziana.

Paradossalmente, sotto questo profilo, un brusco innalzamento del tasso di fertilità appesantirebbe, invece di alleviare, il problema… nel medio termine: i nuovi nati diventerebbero forza lavoro solo dopo 15-20 anni, aumentando, nell’interim, la fascia della popolazione a carico di quella attiva. Lasciare che l’Italia diventi la sala parto dell’Africa sarebbe irrazionale e controproducente. L’inversione deve essere progressiva ed equilibrata. Il Giappone, che si trovava in situazione simile alla nostra, ha imboccato la strada delle politiche attive per il lavoro femminile con buoni risultati (ha ragione Giorgia Meloni). I sussidi devono assistere le imprese a creare lavoro, non chi può lavorare ad evitarlo. Servono a finanziare la ricerca e il collegamento tra accademia e sistema produttivo. A Bruxelles, invece, fare arrivare migranti già (teoricamente) maturi per il mercato del lavoro deve ancora sembrare una buona idea. Anche se questa manodopera, disordinatamente importata, è in maggioranza poco scolarizzata, a ridotto potenziale produttivo. E, sovente, refrattaria a integrazione e assimilazione.

Dall’altro lato, la pandemia ha, in un certo (e brutto) senso, calmierato la crescita dell’aspettativa di vita e il relativo carico sul welfare. Così, non si capisce se le nuove pandemie, evocate dai neomalthusiani green, siano avvertimenti o auspici. Speriamo solo che il futuro non riservi ai cittadini di questo decadente Occidente una data di scadenza della vita umana, come quella sui vasetti di yogurt. Meno esseri umani improduttivi e climalteranti, in nome di sostenibilità e salvataggio del pianeta, ça va sans dire.

Aggiornato il 22 aprile 2023 alle ore 10:21