Pioggia di assoluzioni al processo Eni-Nigeria

La settima sezione penale del tribunale di Milano, presieduta dal giudice Marco Tremolada, ha assolto i quindici gli imputati del processo “Eni-Nigeria”. L’accusa per tutti era di corruzione internazionale in relazione al pagamento di una presunta tangente per l’acquisizione, da parte di Eni e di Shell, dei diritti di esplorazione del blocco petrolifero Opl 245 a largo della sponda nigeriana del Golfo di Guinea.

L’inchiesta giudiziaria, durata anni, ha coinvolto l’amministratore delegato dell’Eni, Claudio Descalzi, e il suo predecessore, Paolo Scaroni, insieme a manager del gruppo operativi nell’Africa sub-sahariana, a figure di vertice della compagnia petrolifera olandese Shell, a politici nigeriani e ad alcuni mediatori nella trattativa commerciale. Il dispositivo della sentenza che manda assolti gli imputati è perentorio: il fatto non sussiste. Scagionate le due società, anch’esse processate in base alla normativa sulla responsabilità amministrativa introdotta nell’Ordinamento giuridico italiano con il Decreto legislativo numero 231 del 2001. La vicenda giudiziaria ha ruotato intorno all’ipotesi del pagamento all’ex ministro del Petrolio nigeriano, Dan Etete (anch’egli assolto ieri l’altro), di una tangente da 1,09 miliardi di dollari, effettuato dai dirigenti delle due compagnie per aggiudicarsi nel 2011 la concessione allo sfruttamento del giacimento petrolifero. Il castello accusatorio non ha retto all’esame di merito del tribunale che ha restituito l’onore alle persone coinvolte.

Allora, giustizia è fatta. Giustizia, un corno! Dopo anni di fango, amplificato dal micidiale killeraggio mediatico delle “inchieste” giornalistiche mirate (l’ultima in ordine di tempo è andata in onda sul tg de “La7” lo scorso lunedì), agli interessati non resta che raccogliere i cocci di una reputazione gravemente lesa. Ma sarà affar loro individuare i mezzi più appropriati a ottenere il risarcimento per il torto subito. Ciò che invece resta affar nostro è l’azione demolitoria praticata con l’arma giudiziaria ai danni di uno degli ultimi gioielli industriali dell’economia italiana. Quando cesserà questo stillicidio autolesionista? Non è la prima volta che un amministratore delegato di Eni finisce a processo con l’accusa di corruzione internazionale. Paolo Scaroni nel gennaio 2020 è stato assolto dalla Corte d’Appello di Milano, insieme ad altri imputati nel processo Eni Saipem-Algeria, dall’accusa di aver pagato una tangente da 197 milioni di dollari. C’era di mezzo un ministro dell’Energia algerino, ritenuto destinatario della super-mazzetta. Anche in quella circostanza, sebbene in sede di giudizio d’Appello, i giudici hanno rigettato l’impianto accusatorio sentenziando che “il fatto non sussiste”.

La giustizia è giustizia e, con frusto luogo comune, si dice che debba fare il suo corso. Se, in linea di principio, è giusto che la dea con la bilancia e la spada sia bendata perché non deve guardare in faccia a nessuno, è pur vero che una occhiata per evitare un ruzzolone sarebbe opportuna. Già, perché in alcuni campi d’indagine la sua spada ha fatto cilecca. Come nei casi in cui è stata coinvolta Eni, un colosso dell’energia presente in 66 Paesi con circa 32.000 dipendenti, di cui 10.565 all’estero, operante attraverso 225 società in Italia e all’estero (fonte: Eni- Relazione sul Governo Societario e gli Assetti Proprietari 2019). L’esercizio di bilancio 2019 ha segnato un utile netto di 0,15 miliardi (4,137 miliardi nel 2018). Lo Stato italiano partecipa al capitale azionario con il ministero dell’Economia e delle Finanze e Cassa depositi e prestiti Spa, per una quota del 30,10 per cento; il complesso dell’azionariato, pubblico e privato, proveniente dall’Italia è del 47,44 per cento.

Piaccia o no, Eni è sinonimo d’Italia. Eppure, sembra che vi sia un sottobosco nostrano, fatto di intrecci sotterranei e di interessi inconfessabili, che si sentirà davvero appagato quando riuscirà a mandare a carte quarantotto anche questa eccellenza industriale. Non si tratta di giocare ai sovranisti ma di usare un po’ di sano pragmatismo. Che il mondo del trade globale non sia il giardino delle meraviglie non è difficile intuirlo. Ma che solo dalle nostre parti si pratichi il discutibile sport di darsi la zappa sui piedi è insopportabile. Fuori dell’uscio di casa nostra scorre una realtà popolata di grandi imprese transnazionali, che si combattono senza esclusione di colpi per conquistare spazi di mercato. E quando un player viene azzoppato per cause più o meno legittime, i concorrenti non gli mandano fiori e attestati di solidarietà ma gli si scaraventano addosso per azzannarlo. Davvero si può essere tanto ingenui da pensare che i Paesi manifatturieri dell’Occidente avanzato non abbiano usato tutti i mezzi possibili, leciti e illeciti, nella corsa all’espansione commerciale?

È sufficiente guardare all’Africa per farsi un’idea di come Stati e multinazionali perseguano i propri interessi. Ciò da un punto di vista etico è riprovevole? Probabilmente lo è. Ma da quando la geopolitica si occupa di morale? E se lo fa il sistema giudiziario italiano andando a caccia di farfalle sotto l’arco di Tito non è che l’Italia diventi d’incanto il paradiso dei diritti altrove negati. È solo che s’impoverisce ulteriormente restando a guardare il gonfiarsi le tasche degli altri. Ricordate il processo al tribunale di Busto Arsizio per corruzione internazionale agli ex amministratori delegati di Finmeccanica e Agusta-Westland, Giuseppe Orsi e Bruno Spagnolini? La vicenda riguardava presunte tangenti pagate per la fornitura di elicotteri all’India. Dopo anni di Via crucis giudiziaria e il carcere per Orsi e Spagnolini, tutti assolti. Peccato che, a causa dell’inchiesta, la commessa da 556 milioni di euro per 12 elicotteri Aw-101 da vendere al Paese asiatico sia sfumata e che l’India, nel 2016, abbia deciso di cancellare tutte le commesse militari al gruppo Leonardo-Finmeccanica, inserendolo nella black list delle aziende con cui non avrebbe fatto affari nei prossimi anni.

Gli indiani delusi dai “cattivoni” italiani si sarebbero consolati, acquistando nel settembre del 2015 da Boeing, il colosso dell’industria aeronautica americana, una flotta di 22 elicotteri d’attacco Ah-64 Apache multiruolo e 15 elicotteri pesanti da trasporto militare Chinook Ch-47F (consegna ultimata nel marzo 2020 all’Indian Air Force-Iaf) e agli inizi del 2020 abbia opzionato altri 6 velivoli Ah-64 Apache da destinare all’esercito indiano.

Ora, non è che sui maneggi internazionali si debba sempre e comunque chiudere un occhio. Ma che, anche in sede giudiziaria, la salvaguardia dell’interesse nazionale vada tenuta in debita considerazione lo pensiamo convintamente. Il mondo gira come gira e non saranno i moralisti italiani a cambiare le regole del moto rotatorio. Se per stare sul mercato bisogna colpire sotto la cintola, non c’è alternativa: si colpisce per primi o si è messi al tappeto. Facciamo appello al presidente Mario Draghi, al suo pragmatismo, per fermare la deriva auto-demolitoria imboccata dall’Italia con l’avvento al Governo dei pentastellati. La politica grillina è stata un’arma puntata al cuore dell’industria della Difesa italiana. Lo ha ricordato Gianandrea Gaiani che, dalle colonne del sito on-line Analisi-Difesa, ha raccontato il misfatto consumato ai danni della fabbrica di bombe Rwm Italia Spa, con la cancellazione dei contratti siglati nel 2016 e 2017 da circa mezzo miliardo di euro con sauditi ed emiratini. Motivo? La partecipazione di questi Stati al conflitto in Yemen.

Ma se le armi non le venderà l’industria italiana, l’Arabia Saudita e gli Emirati arabi smetteranno di fare guerre e si dichiareranno Stati neutrali o si procureranno di comprarle altrove? Nel qual caso, i lavoratori del settore che perderanno il lavoro per mancanza di commesse come sfameranno le famiglie? Con il reddito di cittadinanza? Bisogna saperlo: è stato il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, in assenza di una decisione del Governo, che il 12 gennaio scorso ha adottato un provvedimento di revoca dell’autorizzazione concessa a Rwm Italia per l’esportazione di bombe di aereo verso l’Arabia saudita e gli Emirati Arabi. La retorica sull’Italia che ce la farà a rialzarsi è bellissima; l’entusiasmo per rifare il Paese con i denari del Recovery Plan è bellissimo; la canzone di Roby Facchinetti, il tastierista dei Pooh, “Rinascerò, rinascerai” da colonna sonora all’Italia che esce dal Covid, è bellissima. È tutto bellissimo. Ma se politica e giustizia non si mettono sui giusti binari, decidendo di remare dalla stessa parte, niente più è bellissimo. Ma solo un grande porcata.

Aggiornato il 19 marzo 2021 alle ore 11:10