Pubblica amministrazione: una battaglia persa negli ultimi decenni

Uno dei punti cardine dell’attività del prossimo esecutivo è, senza dubbio, mettere mano alla Pubblica amministrazione. Perché utilizzare l’allocuzione “mettere mano” e non “riforma”? Intanto per un motivo scaramantico, perché l’esperienza delle riforme della Pubblica amministrazione hanno sempre sortito effetti tendenzialmente negativi, anche perché l’ambizione di un qualsiasi ministro della Funzione pubblica, anche quello lontano dalla percezione dei compiti ministeriali, e soprattutto privo di esperienza sul campo, è di vedere il proprio nome che sostituisce i “numeri” (gli estremi), della legge. Così, ci si auspica che non sia per ambizioni egocentriche che si faccia una riforma, e che non si faccia per lasciare l’indelebile cognome sulla effimera “scrivania della Storia”, ma per avere una Amministrazione che svolga un’azione efficace ed efficiente e più che altro al servizio dei cittadini, perché ora come ora il “Sistema amministrativo” è nemico degli utenti e, quasi nella maggior parte dei casi, anche nemico di coloro che lavorano per esso.

Il volto del rapporto stato-cittadino è quello sanzionatorio, è quello dell’addetto allo sportello che spesso frustrato e sfruttato dal suo “datore di lavoro” (Stato), non può dare il meglio di se stesso, passando così per uno che lascia scorrere il tempo inutilmente per l’utenza, la quale difficilmente è messa in condizione di comprendere veramente dove sta il problema. Ora con il Covid, come prima con la privacy, la situazione è peggiorata; esemplificativamente in molti comparti che vanno dai servizi erogati dagli Enti locali al comparto giustizia, hanno ridotto l’orario di apertura degli sportelli al fine di ridurre gli assembramenti; in un Paese serio i Dpcm – che sono costretti ad applicare chi dirige – non sarebbero stati emanati così frequentemente. E non avrebbe avuto quei contenuti. Qualche anno fa, nel 2012, uscì un volumetto dal titolo “La riforma obliqua” con una serie di suggerimenti su “come cambiare la Pubblica amministrazione giocando di sponda”. In sintesi, l’essenza di questo pamphlet, è che più che “grandi riforme” sia importante l’implementazione delle buone pratiche. Uno dei problemi del nostro Paese è, fuori di dubbio, la retorica (quella che gli americani chiamano poesia), in luogo della prosa; il detto è “la campagna elettorale è la poesia, una volta eletti si fa la prosa”.

Una seconda considerazione ci viene dalla storia economica, che ci insegna che la crisi dell’Ancien Régime dipese dalla rottura del sistema gerarchico, complementare con gli ordini (o magistrature). Si trova una certa assonanza con il nostro sistema (e la sua crisi), dove alla gerarchia si affianca un sistema di controllo laterale, vuoi la magistratura, vuoi le Agenzie, le Autorità indipendenti o i famigerati commissari. Così si crea una sovrapposizione di “modelli”, l’uno borbonico che ricorda la commedia scritta da Vittorio Bersezio, “Monsù Travet”, che narra di un povero e modesto impiegato schiavo del dovere e mal pagato, che si sacrifica per il suo monotono e ingrato lavoro d’ufficio, l’altro anglosassone, pervenutoci dall’Europa. E, più che altro, dai trattati della metà anni ‘80 del secolo scorso, in tema di Nuova economia pubblica e Nuovo management pubblico.

Quali le vie per evitare il collasso? Quali le vie per rendere efficiente il sistema amministrativo al fine di ridurne i costi (perché i costi e quindi il debito nascono dall'inefficienza)? Una proposta del Governo di Giuliano Amato (che potrebbe avere assonanze con il nascente Esecutivo di Mario Draghi), a voce dell’allora ministro Sabino Cassese era quello della privatizzazione del rapporto di Pubblico impiego. Se ad una lettura iniziale poteva dare delle garanzie di efficienza, in partica fu assorbito dal “privato” il meglio dal punto di vista contrattuale che fu applicato ad alcune “classi” di dipendenti, e tramite esso si poté procedere ad assunzioni di figure apicali o semi apicali senza concorso pubblico, mentre il resto perse molte garanzie ed in molti casi i diritti acquisiti con anni di lotte e trattative. In verità, probabilmente, prima di riformare il rapporto di lavoro, per le fisiologiche resistenze, sarebbe da capire cosa è veramente il “servizio pubblico” che spesso si vuole confondere con il lavoro privatistico, e assimilarlo ad un sistema di tipo aziendalistico, che non potrà mai avere un riscontro efficace sulla erogazione dei servizi ai cittadini e aziende coinvolte nel “contesto pubblico”. Per fare ciò vi sono una serie di tappe intermedie che passano dal superamento di duplicazioni degli Enti erogatori di un servizio; dalla contabilità fondata su ritmi giuridici e non di flusso di cassa, in termine tecnico per competenza in luogo di cassa; dal reclutamento ed allocazione del personale in funzione delle proprie caratteristiche culturali, come accadeva ante la opinabile Legge Bassanini (poi riformata, troppo tardi, dalla Legge Brunetta e ritoccata dalla Legge Madia, nomi e non numeri), che aprì le porte alle “carriere” a tutti al di là del loro curriculum; unificazione centralizzata dei profili professionali che consentano la selezione, formazione e reclutamento del personale burocratico.

Un ulteriore piano riguarda le forme associate per gli enti troppo piccoli e perciò stessa fonte di diseconomie, superando, anche qui, gli appetiti politici riguardo alle cariche “pubbliche” in Enti come compensazione, spesso, di “trombature” politiche. Inoltre, il lavoro di questo nascente Governo potrebbe fare riferimento a quanto suggerisce il professor Massimo Balducci in una relazione, che richiama alla riforma delle Pubblica amministrazione, dal titolo “Un sommario censimento di problemi e rapide proposte di intervento”. E che potrebbe essere utile per rimettere in carreggiata una gloriosa macchina nata nel 1800 su basi solide, chiare e abbastanza meritocratiche. Tuttavia, è importante, al di là dei spesso falsi stereotipi macchiettistici, ridare agli operatori della Pubblica amministrazione quel senso di dignitosa appartenenza alla burocrazia, di cui “Monsù Travet” era uno “modello” per molti versi positivo, oltra la consapevolezza di avere una missione più grande ed importante. Quella che lo Stato è in funzione dell’uomo e non l’uomo in funzione dello Stato, unico antidoto contro una burocrazia (vedi gestione della pandemia) che può uccidere.

Aggiornato il 11 febbraio 2021 alle ore 09:41