Un ponte non fa primavera

Sull’onda del dramma costato 43 vittime per il crollo ingiustificabile di due anni fa del ponte di Genova, la ricostruzione è avvenuta in tempi record per l’Italia, perché se facessimo un confronto con la maggior parte dei Paesi normali, nessun record si potrebbe evidenziare. Solo da noi si annunciano risultati straordinari sui tempi di realizzazione delle infrastrutture, quando la ricostruzione è più veloce rispetto ai tempi biblici di ogni opera italiana, basterebbe pensare alla Salerno-Reggio Calabria. Del resto, per trovare grandi infrastrutture realizzate in tempi cosiddetti record, bisogna tornare alle Olimpiadi di Roma del 1960, dopodiché tranne eccezioni del tipo l’Aquila, dopo il terremoto del 2009 con il governo Berlusconi. Matusalemme, docet. È la ragione per la quale l’Italia fra i Paesi più importanti si distingue per ritardi e arretratezze infrastrutturali di ogni tipo, così come per la trascuratezza della manutenzione ordinaria e straordinaria di ciò che esiste e andrebbe conservato integro ed efficiente. Parliamo della rete viaria, portuale, ferroviaria, dell’assetto idrogeologico del territorio, di quello delle grandi città e dei comuni minori, per non parlare dei siti archeologici, dei monumenti e di tutto quell’immenso patrimonio artistico che grida vendetta al cospetto del mondo.

Scendendo al Sud poi, la situazione diventa drammatica per trascuratezza, al punto da rendere plastica la divaricazione con il nord e col resto dei paesi moderni dove l’insieme delle opere al servizio della crescita, dello sviluppo, dell’economia, oltreché dei cittadini è considerato prevalente. Qui non si tratta solo di capacità di spesa che è inqualificabile, perché o non spendiamo oppure lo facciamo quasi sempre male e in tempi vergognosi. Basterebbe pensare al numero delle incompiute, delle cattedrali nel deserto, si tratta di strategia politica e dell’idea di un sistema Paese radicalmente opposto. Tanto è vero che con i cattocomunisti che per 67 anni su 76 ci hanno governato, l’ipocrisia che li distingue ha affondato lo stesso keynesismo di cui si fanno portabandiera, perché il deficit spending utilizzato per l’assistenzialismo, il clientelismo, il gigantismo dell’apparato improduttivo, non funziona anzi rovina l’economia e il potenziale di crescita e sviluppo. Il grande John Maynard Keynes infatti, quando pensava all’intervento pubblico nell’economia, specialmente nelle crisi a tutto si riferiva fuorché al leviatano di posti pubblici, all’espansione illimitata della burocrazia di Stato, alle baby pensioni, ai carrozzoni e all’assistenzialismo elettorale. L’economista moderno più famoso, pensava agli investimenti infrastrutturali, alla costruzione di grandi opere, alle esternalità positive, a tutto ciò che fosse fondamentale per la crescita, lo sviluppo, l’occupazione produttiva e al dispiegamento della leva in economia. Esattamente il contrario di ciò che i cattocomunisti in decenni di governo hanno fatto, accumulando un debito stellare che ci costa per il servizio un’eresia, ci obbliga ad una spesa improduttiva folle, ad imporre tasse aguzzine, a pietire in ginocchio soldi all’Europa sempre e comunque.

Solo a citarla la cifra mette paura: ci avviamo ai mille miliardi l’anno l’equivalente del Pil di un grande Paese, una montagna di denaro per servizi inefficienti, dipendenti inutili e spesso nullafacenti, stipendi da sceicco ai super burocrati, enti di stato che non servono, carrozzoni e municipalizzate colabrodo, un welfare da socialismo reale clientelare destinato a collassare. Ecco perché abbiamo trascurato il resto e siamo rimasti al palo, tranne poche opere oltretutto al centro di scandali e malaffare, sarebbe tutto da rifare, progettare, un Paese intero da aggiornare, sviluppare e mettere in sicurezza a partire dal mezzogiorno. Altroché bonus di Matteo Renzi, reddito di cittadinanza, quota 100, assunzioni pubbliche a botte di decine di migliaia, task force a gogò, commissari ovunque, salvataggi di aziende fornaci di debiti, statalizzazioni di imprese mangiasoldi, finanziamenti pubblici allegri e svantaggiosi. Per questo abbiamo scritto un ponte che non fa primavera e ricordato l’incapacità e la lentezza estenuante a costruire, ad investire rapidamente dove servirebbe, a spendere i soldi per la crescita e lo sviluppo anziché per i monopattini, lo Smart working, posti fissi ulteriori, il reddito per stare sul divano e le idiozie di bonus che per averli passa la voglia tanto sono complicati. L’Italia è ridotta così perché prima Dc e Pci con la complicità del sindacato, poi il Pci-Pds-Ds-Pd e gli altri comunisti sparsi l’hanno curvata al socialismo reale, allo Stato assistenziale, alla presenza pubblica ovunque, coi grillini oggi poi non ne parliamo la presenza loro è peggio del carico da 11.

Del resto, il biglietto da visita dei 5 stelle si era visto nel fallimento gialloverde e nei comuni governati, a partire dal disastro romano, dunque pensate a fare la somma tra quelli che per decenni hanno rovinato il Paese e quelli che da qualche anno fanno peggio, una tragedia annunciata. Al Paese serve uno shock liberale, democratico, repubblicano, laico, presidenziale una opzione politica antiburocratica e antistatalista, anti-nullafacenti passa carte, una opzione di libertà economica dove è permesso tutto quello che non è vietato, serve un welfare equo che sostenga i diritti piuttosto che i privilegi, i deboli al posto dei furbetti di Stato. È solo questo il vero significato della ricostruzione, una rivoluzione di sistema e di architettura politica istituzionale, costituzionale e strutturale, altrimenti finirà che le navi ripartiranno dall’Italia come decenni e decenni fa in cerca di lavoro e di fortuna, ma non eravamo clandestini e illegali.

Aggiornato il 04 agosto 2020 alle ore 10:41