Virologi in passerella

Sono tempi difficili per i virologi. Giovedì 14 maggio, durante una puntata di Otto e mezzo su La7, c’è stata un’interessante conversazione tra il giornalista Stefano Barisoni, di Radio 24, e Ranieri Guerra (nella foto), il numero 2 dell’Oms, ascoltato componente del comitato tecnico che ha “imposto” il lockdown. Nel corso della puntata, Barisoni, persona solitamente molto educata, ha interrotto Guerra mentre stava parlando per “contestare” questa circostanza: “Invito, non tanto Lei, che pure apprezzo, ma i suoi colleghi ad andare un po’ meno in tivù e a produrre maggiore materiale scientifico per individuare, con certezza, i luoghi in cui avviene il contagio in questo paese, perché non abbiamo ancora capito quanta parte dei contagi avvenga nei luoghi di lavoro, quanta negli ospedali e nelle Rsa e quanta nelle famiglie”. Effettivamente, a tre mesi dalla comparsa del Covid-19, non c’è ancora chiarezza su questo aspetto che è decisivo anche per orientare le scelte politiche in modo da “ammortizzare” al meglio le conseguenze sociali ed economiche del lockdown. Dai dati in possesso di Barisoni, riconducibili al Washington Post, la location “lavoro” sarebbe pari al 4 per cento dei casi tra i principali luoghi di contagio negli Stati Uniti, per cui, se questo dato venisse confermato anche in Italia, è evidente che qualcosa non torna. Da qui la chiara domanda di Barisoni a Guerra: “Quand’è che la comunità scientifica riuscirà a darci una proiezione attendibile su dove avviene il contagio, perché abbiamo chiuso il paese nei luoghi di lavoro e ci siamo tutti trasferiti in casa, ma se dovessimo scoprire che il contagio avviene di più in casa che nei luoghi di lavoro, qui rischiamo di chiudere alla cavolo, volevo dire un’altra parola, in luoghi in cui la diffusione è bassa, per cui è meglio se torniamo al lavoro?”.

La risposta di Guerra è stata piuttosto diplomatica ed il tecnico altro non poteva fare se non rimanere sulle proprie rigorose posizioni. Infatti, ha ribadito che, nonostante il lockdown, “Il 45 per cento della forza lavoro è rimasta attiva e questo può aver inciso negativamente per bloccare il virus, soltanto se fossimo stati cinesi sul serio e, cioè, se avessimo arrestato tutta la capacità produttiva del paese avremmo avuto una caduta immediata, così non è stato fatto; in sede familiare può accadere che chiunque possa essere un potenziale vettore”. Quindi, oltre ad aver scaricato le responsabilità sulle persone “colpevoli” di essere andate a lavorare, non ha risposto, se non in modo frammentario, ad una domanda chiara e diretta. La conclusione è che, ancora oggi, in “Fase 3”, non conosciamo la esatta “proporzione” dei luoghi di contagio sul territorio ed il governo ha sempre evitato di affrontare il tema del contagio domestico, ma forse ha anche esaminato soluzioni alternative perché un decreto dello scorso marzo, mai utilizzato, permetteva alle autorità locali di confiscare alberghi per ospitare pazienti non in condizioni di isolarsi correttamente in casa. In effetti, gli italiani sono stati confinati in casa per due mesi, multati quelle rare volte che si sono permessi di andare a prendere un po’ d’aria, con droni ed elicotteri a sorvegliare la situazione, per cui sarebbe un bel problema se lo “state a casa” imposto dal governo su ferrea indicazione del Cts, si rivelasse controproducente, non solo, per avere bloccato il sistema economico, ma anche per avere indirettamente agevolato l’espansione del contagio.

Infatti, per Massimo Galli, primario dell’ospedale Sacco di Milano “Le famiglie sono tra i più grandi bacini di infezione ed è proprio da lì che potrebbe ripartire”. Della stessa opinione anche Andrea Crisanti, validissimo virologo dell’Università di Padova, secondo cui: “Le famiglie sono una bomba ad orologeria”. In effetti, siamo in “fase 2” da tre settimane, i “costretti” a casa sono a piede libero e, quindi, oltre ad essere liberi di respirare, sono anche liberi di “contagiare”, per mancanza di strumenti di tracciamento idonei a seguire gli ex reclusi. La “contestazione” di Stefano Barisoni sulla mancanza di dati scientifici a “mappatura” dei luoghi più a rischio è condivisibile e lo abbiamo scritto ripetutamente. Comunque, in Italia, l’indice di contagio domestico è pari al 25 per cento secondo l’istituto superiore di sanità, mentre ancora non è chiaro il numero dei decessi avvenuti in casa, ne’ quelli avvenuti in terapia intensiva e, secondo l’Inps, ci sarebbero addirittura 20mila decessi in più rispetto ai dati della protezione civile, quindi, la confusione regna sovrana. Inoltre, soprattutto in caso di contagio domestico, il tracciamento dei contatti e la diagnosi precoce sono oltremodo necessari ed il passaggio di fase potrebbe tradursi, da questo punto di vista, in una vera e propria “licenza di contagio”, per gli asintomatici.

Problemi che il governo avrebbe già dovuto risolvere da mesi e per questo sono stati scomodati personaggi del calibro di Domenico Arcuri e Vittorio Colao, tuttavia, il passaggio di fase sembra più assimilabile ad un “Che Dio c’è la mandi buona” piuttosto che ad una transizione guidata con cura. Infatti, Arcuri, dopo una prima fase in cui si è esposto molto senza bucare lo schermo – ma tra le sue indiscutibili qualità non rientra quella di intrattenere il pubblico e, difatti, di mestiere non fa il presentatore, ma l’amministratore delegato di importanti aziende pubbliche – si è arenato nei meandri della importante App “Immuni” che dovrebbe consentire il tracciamento dei positivi. Stesso discorso per le decine di milioni di mascherine che aveva promesso quasi gratis e che, invece, fino a questo momento sono introvabili. Qui ci permettiamo una battuta stupida: mentre il governo israeliano ha tracciato i positivi ricorrendo al servizio segreto e conferendo allo Shin Bet poteri speciali per entrare nei telefoni, Giuseppe Conte voleva “utilizzare” il commissario Arcuri per fare più o meno la stessa cosa; è evidente che il risultato non poteva essere lo stesso. Comunque, tre settimane dall’inizio della fase 2 rappresenta un tempo congruo per sondare il terreno in merito ad una possibile ricaduta e, fortunatamente, l’indice di contagio è in costante discesa, per cui, facendo i dovuti scongiuri, sembra che la transizione stia funzionando, forse anche grazie ad un pizzico di buona sorte, piuttosto che per merito di qualcuno. Lunedì 18 maggio tocca di nuovo a Guerra, su Report, e stavolta è stato “protagonista” di un’inchiesta sul mancato aggiornamento del piano pandemico negli anni in cui è stato direttore generale della Prevenzione sanitaria del ministero della Salute. Secondo Report, l’attuale piano non risulta essere stato aggiornato dal lontano 2010, per cui sono state chieste spiegazioni sia a Ranieri Guerra che a Claudio Demario in quanto l’aggiornamento era di loro competenza, rispettivamente, nel triennio 2014-2017 e 2017-2020.

Demario non ha rilasciato alcuna dichiarazione mentre Guerra ha accettato di rispondere a qualche domanda telefonica e si è difeso invitando il giornalista a rivolgersi all’attuale governo italiano visto che, da tre anni, si è trasferito ad un’altra amministrazione. Sul punto, ha rilasciato qualche dichiarazione anche ad Agorà in cui ha parlato di “Ragioni di confidenzialità che non gli permettono di entrare nel dettaglio”. Inoltre, Guerra ha mandato a Report un’email in cui ha precisato che, contrariamente alle “insinuazioni”, il piano è stato regolarmente aggiornato dalla sua direzione il 15 dicembre 2016 ed ha anche postato su Facebook un link la cui consultazione avrebbe confermato la correttezza del suo operato. Tuttavia, dal tracciamento del link effettuato da un esperto in sicurezza informatica – attraverso un viaggio nel tempo avvenuto mediante un’analisi dei “metadati” che ha creato una sorta di “carta di identità” del file – è emerso che l’aggiornamento, altro non è, che un “copia e incolla” di un piano pandemico che è stato davvero aggiornato, l’ultima volta, solo nel lontano 2006, data di nascita del file. Ma non è finita perché il tracciamento del link ha permesso di comprendere che anche l’attuale piano pandemico aggiornato ai primi di maggio del 2020, quindi, in piena emergenza Covid-19, continua ad essere sempre quello del 2006, ripetutamente copiato e, quindi, non risulta mai seriamente aggiornato negli ultimi 15 anni.

Non spettano a noi valutazioni riservate alle competenti Autorità, tuttavia, se i fatti raccontati da Report non verranno sconfessati, si tratta di gravi omissioni da parte del Ministero della Sanità che meritano approfondimenti sia amministrativi che giudiziari, perché hanno contribuito all’impreparazione del paese nel momento in cui è scoppiata l’emergenza sanitaria nei mesi scorsi, quando “a cena” si è presentato il Covid-19. Infatti, secondo Report, il mancato aggiornamento del piano “ha inciso sui protocolli ospedalieri e sul fabbisogno delle terapie intensive, sullo stoccaggio delle mascherine e sui dispositivi di protezione individuale”, senza dimenticare che ci sono state molte vittime proprio tra medici e infermieri forse dovute anche a questa impreparazione. L’attuale direttore generale Claudio Demario, qualche giorno fa, è stato sostituito da Giovanni Rezza, direttore dell’Iss, non sappiamo se per un normale avvicendamento oppure per altre ragioni. È notizia del 19 maggio che è stata accolta la richiesta avanzata da 122 paesi di aprire un’indagine sui ritardi della Cina per presunte responsabilità nella diffusione del Covid e si tratta di una buona notizia perché è un primo passo verso la dovuta trasparenza di cui il mondo intero in questo momento ha fortemente bisogno, tuttavia, lascia perplessi che l’indagine sia stata affidata proprio all’Oms, perché, da una sommaria analisi, non sembra del tutto immune da responsabilità.

È corretto giuridicamente che l’indagine avvenga in sede internazionale, in quanto l’Oms fa parte dell’Onu, tuttavia, andrebbe gestita dal Consiglio di Sicurezza, senza interferenze dirette dell’Oms, perché c’è il rischio che le sue conclusioni vengano strumentalizzate. Sempre il 19 maggio c’è ancora Ranieri Guerra su La7, ospite, stavolta, di Giovanni Floris a DiMartedì, in cui, in un ambiente decisivamente più rilassato rispetto al giorno precedente, ha commentato i dati ufficiali sull’andamento del contagio. In pochi giorni si segnalano ben tre comparsate televisive, di cui una avrebbe fatto volentieri a meno. È forte la tentazione di unirsi all’appello di Stefano Barisoni secondo cui tutti questi virologi farebbero meglio ad esporsi di meno e a lavorare di più, tuttavia, poiché un appello del genere avrebbe poco senso senza un contestuale appello ai giornalisti che continuano ad invitarli e, considerato, soprattutto, che la libertà di stampa in questo paese è un caposaldo imprescindibile, è meglio astenersi da qualunque appello e fare semplicemente ricorso alla libertà di telecomando.

Aggiornato il 25 maggio 2020 alle ore 12:52