Gli esperti della mente umana dicono che non bisogna tenersi niente dentro: fa male. Tirare fuori è la migliore terapia. Magari non per farsi degli amici ma per sentirsi in pace con la propria coscienza, sì. Allora sputiamo il rospo: quelli dell’Anpi – l’Associazione nazionale partigiani d’Italia – hanno rotto, di loro non se ne può più. Quelli che detengono il brand dell’antifascismo “doc” non sono gli stessi che hanno fatto la Resistenza, sono gli epigoni appropriatisi del marchio. Di partigiani ne sarà rimasto qualcuno, sub-centenario. Coloro di cui sentiamo parlare quotidianamente sono i possessori di un copyright grazie al quale si sono ritagliati un posto nella vita degli italiani: decidono di volta in volta a chi spetti il bollino blu del perfetto antifascista e a chi no.
Insomma, una casta di censori di cui non si avverte il bisogno. Per conservare un potere indebito, costoro tengono accesa la fiamma dell’odio e della divisione tra gli italiani a più di settant’anni dai fatti che condussero il Paese a spaccarsi e a combattersi in una sanguinosa guerra civile all’interno di un più vasto conflitto mondiale tragicamente distruttivo. Gli sputasentenze ce l’hanno particolarmente con le amministrazioni comunali che si occupano di toponomastica. L’Anpi rivendica un diritto morale a esprimere un parere preventivo e vincolante sull’opportunità o meno di titolare strade e piazze delle nostre città a figure che abbiano avuto rilievo o notorietà presso le comunità interessate. Il personaggio da onorare, deve, a giudizio di quelli dell’Anpi, passare l’esame di gradimento dell’“antifascismo politically correct”: se piace, il suo nome viene immortalato sulla targa; se non piace finisce nello sversatoio della damnatio memoriae. Non basta che, illo tempore, il candidato agli onori toponomastici sia stato dalla parte giusta della Storia o, se troppo giovane per aver attraversato quell’infame periodo per l’Italia, sia stato con i vincitori e contro i vinti negli anni della Repubblica. Si valuta la collocazione politica, la postura, il modo di porsi nel vivere quotidiano perché stando a questi Soloni non basta essere antifascisti, bisogna apparire tali.
Capita così che a Genova, dove per iniziativa dell’amministrazione comunale si sia deciso di dedicare una strada a Fabrizio Quattrocchi, l’operatore della sicurezza privata trucidato nel 2004 in Iraq da feroci ribelli islamisti, l’Anpi s’indigni e ponga il niet. Fabrizio non era uno della banda Koch, i torturatori nazifascisti macchiatisi di indicibili crimini contro le popolazioni civili di Roma e dell’Alta Italia tra il 1943 e il 1945. La sua vicenda fece scalpore perché, prima di essere ammazzato, Quattrocchi volle guardare in faccia i suoi aguzzini e consegnargli un’espressione eroica destinata alla storia migliore del nostro Paese: “Vi faccio vedere come muore un italiano”. Si dirà: bene che la città di Genova l’onori dedicandogli una strada. Invece, no. Si sono fatti sentire i faziosi che hanno avuto da ridere sulla commemorazione del caduto italiano. Il motivo? Delirio puro. L’Anpi s’indigna perché dedicare a Fabrizio un attraversamento pedonale del fiume Bisagno che collegherebbe corso Galliera e piazzetta Attilio Firpo, sarebbe un oltraggio alla memoria di Firpo. Bisogna sapere che Attilio Firpo è stato un partigiano della Resistenza italiana durante la Seconda guerra mondiale. Appartenente alla Brigata Sap "Mirolli", nome di battaglia di Attila, fu fucilato dai nazisti proprio in corso Galliera il 14 gennaio 1945. Per l’Anpi l’accostamento del ricordo di Fabrizio a quello di “Attila” sarebbe sacrilego. Perché? “Firpo è stato ucciso per liberare la propria patria, mentre Quattrocchi era una persona impegnata su teatri di guerra stranieri per scelta professionale”.
Per l’Anpi ci sono morti di serie A e morti di serie B. E Fabrizio non merita gli onori della memoria perché faceva il contractor e non il partigiano. Non importa che sia stato ucciso per il fatto di essere un italiano. Il non detto è che Quattrocchi si sospetta che fosse in Iraq per difendere chissà quali oscuri interessi e, potenzialmente, pronto a fare fuori qualche canaglia islamista, sempre cara ai terzomondisti della sinistra. Se non è delirio questo, non sapremmo come altro definire il comportamento degli autonominati guardiani della memoria e dell’Ethos degli italiani. Questi faziosi, custodi sì ma dell’odio, si sono spinti a chiedere al sindaco di Genova, Marco Bucci, di annullare la cerimonia e di cercare per la targa a Quattrocchi un’altra collocazione. Semplicemente ridicoli. Ma si leggano “’A livella” di Totò, almeno capiranno qualcosa dei morti. E anche dei vivi.
La cerimonia di apposizione della targa si sarebbe dovuta tenere questa mattina, ma è stata sospesa. Il sindaco ha preso atto della richiesta della sorella di Fabrizio che, con un gesto di stile, ha chiesto che la commemorazione non diventasse un momento divisivo per Genova. Tuttavia, la nobiltà del gesto della signora Gabriella non manda assolti i “custodi dell’odio” dell’Anpi dalla mascalzonata compiuta. Fabrizio Quattrocchi fu preso in ostaggio a Baghdad il 13 aprile 2004, con i colleghi Umberto Cupertino, Maurizio Agliana e Salvatore Stefio, da un sedicente gruppo islamista denominato "Falangi Verdi di Maometto". I rapitori e assassini non vennero mai identificati. Il 21 maggio 2004, grazie a una mediazione della Croce Rossa italiana, vennero rinvenuti i resti di Fabrizio, occultati nei pressi dell'ospedale gestito a Baghdad proprio dalla Cri. Gli ultimi strazianti momenti di Fabrizio furono resi noti da un suo sequestratore, tale Abu Yussuf (nome di battaglia) che in un’intervista al Sunday Times del giugno 2004 non solo rivelò di essere l’autore del video dell’esecuzione dell’italiano, ma ne riferì le ultime parole: “Quattrocchi mi disse: Tu che parli italiano concedimi un desiderio, toglimi la benda e fammi morire come un italiano”. Nel gennaio 2006 il Tg1 della Rai trasmise il filmato relativo all’uccisione di Quattrocchi omettendo però la sequenza dello sparo. Fu Pino Scaccia, il giornalista che curò il servizio, a rendere noto il contenuto delle ultime parole pronunciate da Fabrizio: “...Quattrocchi è inginocchiato, le mani legate, incappucciato. Dice con voce ferma: ‘Posso toglierla?’, riferito alla kefiah. Qualcuno gli risponde ‘no’. E allora egli tenta di togliersi la benda e pronuncia: ‘Adesso vi faccio vedere come muore un italiano’. Passano secondi e gli sparano da dietro con la pistola. Tre colpi. Due vanno a segno, nella schiena. Quattrocchi cade testa in giù. Lo rigirano, gli tolgono la kefiah, mostrano il volto alla telecamera, poi lo buttano dentro una fossa già preparata. ‘È nemico di Dio, è nemico di Allah’, concludono in coro i sequestratori”.
Con Decreto del 13 marzo 2006, su proposta del ministro dell'Interno Giuseppe Pisanu, il presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi ha conferito a Fabrizio Quattrocchi la medaglia d'oro al valor civile alla memoria. La motivazione: “ Vittima di un brutale atto terroristico rivolto contro l'Italia, con eccezionale coraggio ed esemplare amor di Patria, affrontava la barbara esecuzione, tenendo alto il prestigio e l'onore del suo Paese”.
Ecco perché Fabrizio è un eroe che merita di essere ricordato e questi dell’Anpi devono smetterla di soffiare sul fuoco di una divisione tra italiani che dopo settant’anni non ha più ragione d’essere. È il momento di una riscrittura di “Bella ciao!” da dedicare ai distributori seriali di patenti di antifascismo: “O partigiano, portali via/o bella, ciao! bella, ciao! bella, ciao, ciao, ciao!/ O partigiano, portali via, ché mi sento di morir”.
Aggiornato il 02 dicembre 2019 alle ore 11:24