Migranti: un cumulo di ipocrisie

La questione dei “migranti”, che ha scatenato un po’ tutte le rivalità, gli impulsi all’abuso della retorica, la frenesia del voler “tagliare l’erba sotto i piedi” agli avversari, ha assunto il massimo dell’assurdità di ogni politica concepita e vissuta alla giornata, alla ricerca del consenso per l’ultima mossa e per l’ultimo insulto e, al contempo, quello del voler proporre al Paese, gabellandole come “una politica sui migranti”, quelle che sono, invece le impressioni che singoli, sconcertanti provvedimenti, adottati prescindendo da una serie di altre situazioni che ne delineano il contesto e ne condizionano gli effetti e i risultati. Così hanno torto anche quelli che hanno ragione sulla specifica questione dibattuta ed hanno ragione anche quelli che avrebbero torto se quanto essi sostengono andasse ad inserirsi in un contesto diverso, senza i pregiudizi rappresentati da situazioni abnormi, consolidate, prodotte da errori madornali e da inerzie criminali commutatesi nel tempo. Che ciò comporti errori di cittadini male informati o facilmente dimentichi di quelle situazioni e condizioni ed incapaci, quindi di giudizi basati sulla logica e non sulle reazioni dei sentimenti, è grave. Ma assai più grave è che un atteggiamento simile lo abbiano anche organismi, correnti di pensiero, partiti, che ben conoscono la situazione, anche perché ne hanno parte nella responsabilità di averla determinata negli anni precedenti. Se le accorate grida scandalizzate degli Orlando, più o meno furiosi per le norme del cosiddetto “decreto sicurezza” sui migranti cui è scaduto il permesso di soggiorno grondano ipocrisia e vanno in frantumi al ricordo dell’inerzia di fronte alla disfunzione dei meccanismi che dovrebbero assicurare la cernita di  quanti approdano nel nostro Paese, assai più grave e francamente ripugnante, è l’atteggiamento di chi ha avuto responsabilità politica diretta o indiretta, della mancanza di ogni serio e tempestivo sistema di cernita di chi, in buona sostanza, ha sfruttato l’inefficienza del meccanismo, per gettarsi dietro le spalle i problemi prodotti dal suo funzionamento (o distruzione), quali la “bocciatura” di molte richieste di asilo a cui avrebbe dovuto seguire il rimpatrio.

La politica dei nostri governanti (cioè: sgovernanti) è quella del “fatto del giorno”. Essa segue il corso delle chiacchierate del Bar dello Sport, ne riceve gli impulsi e gli argomenti. Da un punto di vista elettoralistico, è redditizio. Ma è, della democrazia, l’esatto opposto. Perché non ha nulla a che vedere con una vera assunzione di responsabilità per i problemi che dettano i tempi e non si piegano a quelli della discussione. L’aspetto più pericoloso di questo profilo del populismo (dovremmo dire “neo-populismo” per non confonderlo con quello dei Lazzaroni e delle schiere del Cardinale Ruffo) è che finisce per imporre questo suo modo di concepire non solo i tempi, ma tutta l’architettura (si fa per dire) della politica alle altre forze, agli altri partiti. I quali, del resto il populismo nel nostro Paese pare l’abbiano avuto nel sangue non da ieri. I cattolici, del resto, contrappongono la denominazione da loro prescelta, “popolari” alla democrazia e al socialismo. Popolari, una variabile di qualche sillaba di populisti. Il fascismo fu anch’esso una versione del populismo, con il condimento di una retorica arrogante e grottesca. Oltre che della istituzionalizzazione della violenza per imporla. Una retorica di cui, in buona sostanza, esso finì per essere schiavo. Come, del resto, schiavi delle loro ciance e della loro “antipolitica” alla giornata sono i nostri cinquestelle ed anche, sia pure per diversa parte, i loro alleati-nemici leghisti. Già, perché parlare di “alleati” della maggioranza di governo è cosa che oggi fa ridere. Se si può ridere di fronte alle tragedie.

Aggiornato il 08 gennaio 2019 alle ore 13:05