Intercettazioni: prove di riconciliazione tra procure e avvocati

“Io non ho mai visto un pm cercare prove per un indagato”.

La frase di Armando Veneto, presidente del Consiglio delle Camere penali italiane e indomito combattente di cento battaglie suona secca nell’aula del convegno gremita per assistere a una sorta di cerimonia di riconciliazione tra procure e avvocati in nome dei comuni interessi contro una riforma delle intercettazioni con cui il ministro Andrea Orlando ha scontentato entrambi. L’insolita convergenza è nata dalla constatazione che le critiche mosse dai procuratori di Milano, Roma, Napoli, Palermo e Firenze avevano punti in comune con quelle indirizzate dai penalisti dell’Unione Camere Penali alle Commissioni Giustizia di Camera e Senato.

Narrano le cronache che le prime “avance” le abbiano fatte Giuseppe Pignatone e i suoi colleghi ai propri omologhi delle rispettive Camere penali, ma c’è da dire che questi non si sono fatti pregare e hanno risposto, si spera non sventuratamente.

Il fronte comune si è saldato su un punto in particolare: la delega “in bianco” che la legge dà alla polizia giudiziaria (tra cui i corpi speciali come Ros e i Noe da cui proviene il famoso maggiore Giampaolo Scafarto, l’ufficiale dei carabinieri accusato giustappunto di aver falsificato le trascrizioni nella vicenda Consip) sulla selezione delle intercettazioni da poter poi utilizzare come prova dell’accusa.

“Non ho mai visto un pm cercare prove per un indagato”, forse al vecchio lupo (di tante battaglie beninteso) deve essere suonata strana questa fioritura inaspettata di garantismo fuori stagione, quando il futuro politico sembra improntato a furiose grandinate giustizialiste. Lui ha conosciuto e praticato il garantismo, ma ha visto da vicino pure Antonio Di Pietro per cui, diciamo, il fiuto non gli manca.

E la risposta irritata di uno dei padroni di casa (“se Veneto non ha visto deve essere stato molto sfortunato”), il procuratore di Roma Pignatone, promotore dell’iniziativa insieme al presidente dei penalisti romani Cesare Placanica, ha evocato senza pronunciarne il nome l’“incidente Scafarto-Woodcock”, quello strano intreccio di brogliacci modificati e fiducia mal riposta, che la sua procura ha spezzato, ma che tanti interrogativi ha lasciato sospesi in aria.

Eppure il rischio corso deve aver fatto suonare un campanello d’allarme: per un (presunto) inganno sventato quanti altri ne possono occorrere? E se succede e non ci se ne accorge? Si potrà sempre contare come Woodcock su colleghi scrupolosi e accurati che hanno sollecitamente fugato i dubbi?

Che l’assillo sia quello lo si è intuito dall’intervento del Procuratore di Torino Armando Spataro, che a sorpresa ha dichiarato essere un falso problema quello del rischio legato agli errori della polizia giudiziaria, ostentando assoluta fiducia, tra lo stupore di chi gli ha ricordato di aver firmato con gli altri colleghi un documento che sosteneva il contrario. Come noto spesso le rassicurazioni celano timori nascosti e forse a qualcuno certe preoccupazioni possono essere sembrate un modo di mettere le mani avanti e tirarsi fuori da inconvenienti e disagi che sicuramente si manifesteranno.

Da studiare certamente la proposta del procuratore di Napoli, Giovanni Melillo, su uno dei punti più dolenti, il divieto di estrarre copie delle intercettazioni dichiarate irrilevanti a scelta insindacabile degli agenti all’ascolto, di ricorrere a software che consentano ai difensori di poter accedere all’archivio riservato.

Infine, le intercettazioni dei colloqui del difensore: a voler essere maliziosi dietro i sorrisi si poteva intuire un vago disagio, un non detto trattenuto, la constatazione di qualche assenza importante in platea. I penalisti si dicono soddisfatti per aver fatto cancellare dalla legge la norma che consentiva l’annotazione delle intercettazioni tra difensore e assistito. Una buona cosa, ma se a fronte di ciò si dovesse constatare un “allargamento” del rilievo penale delle condotte del difensore, la criminalizzazione di inadempienze e disinvolture tuttalpiù rilevanti in sede disciplinare, il saldo non sarebbe attivo per il diritto di difesa. L’occasione e il bon ton ostentato escludevano ogni focolaio di tensione. Ma per certe cose non dette si troveranno altre occasioni.

 

Aggiornato il 23 marzo 2018 alle ore 21:01