L’Italia, già lo sapevamo, era stata “parte lesa” nella vicenda del dissennato attacco alla Libia di sette anni fa con il quale Francia ed Inghilterra distrussero lo Stato tenuto assieme dal grottesco dittatore Gheddafi, che tuttavia era l’unico Stato africano affidabile sotto diversi punti di vista (funzionava l’accordo con l’Italia, per limitare e filtrare l’ondata migratoria ed ottimi erano i molti rapporti in fatto di rifornimenti energetici).
Parte lesa di una brutale e sciocca spoliazione soprattutto francese dei nostri beni ed interessi, o, piuttosto, dovremmo dire, vandalica distruzione, perché la Francia si ritrova ora con in mano una economia disastrata di un Paese disgregato.
Ma la storia di quella sciagurata vicenda di violenta politica neocoloniale ha arrecato all’Italia, danni ancora più gravi e, se le responsabilità dei governanti francesi e britannici sono gravi ed imperdonabili e gravi è la responsabilità del Presidente americano Barack Obama, convinto a consentire l’aggressione da Hillary Clinton, Segretaria di Stato Usa, da noi le responsabilità del più clamoroso errore in fatto di politica nei Paesi ex coloniali si intreccia con un’altra vergognosa vicenda, nella quale un altro Presidente della Repubblica, quello italiano, che, diversamente da Nicolas Sarkozy non è stato messo in stato di fermo, ha avuto un ruolo non secondario, che, secondo la nostra Costituzione (che non trova riscontro nel Codice penale) è definibile sicuramente come altro tradimento.
Giorgio Napolitano fu il fautore accanito e spregiudicato della riluttante adesione italiana all’assalto alla Libia (utilizzazione delle basi e “apertura” dello spazio aereo). Napolitano, ex esponente, anche se non di primissimo piano, del Partito Comunista Italiano, si era ritrovato a godere della qualifica di “democratico” senza aver dovuto cambiare appartenenza e (formalmente) opinione, semplicemente perché volentieri fu regalato al Partito Comunista, magari con un’etichetta un po’ modificata, quella qualifica di cui egli, poi, fruttuosamente si avvalse per la sua carriera politica. La sua responsabilità nella vicenda libica non è solo quella di avere sostenuto la tesi dell’aggressione al di là delle posizioni e opinioni del Governo in carica (cosa che è, almeno, una grave scorrettezza costituzionale). In questi giorni testimoni che seguirono da vicino i contatti e i contrasti tra Napolitano e Berlusconi, Presidente del Consiglio, assolutamente contrario e poi riluttante di fronte alle insistenze del capo dello Stato, attestano che Napolitano “fece valere” il suo ruolo di capo delle Forze armate. Che un Presidente della Repubblica, esponente e simbolo dell’unità nazionale, si avvalga di un ruolo particolare e di un particolare apparato dello Stato per imporre al Governo, responsabile di fronte al Parlamento, decisioni, tra l’altro, in un campo diverso da quello oggetto delle funzioni connesse a tale ruolo, è di per sé un comportamento eversivo.
Ma non basta. Napolitano si avvalse, per imporre la sua volontà a Berlusconi, di mezzi e personaggi che stavano dando prova di slealtà e di disinvolte prevaricazioni. Un modo certamente ambiguo (almeno) lo ebbe Franco Frattini, ministro degli Esteri (quello che, nella “Navicella” dei Parlamentari, aveva la singolare annotazione: “ama le arrampicate”). Pare che Frattini si ripromettesse di ricavare da questo suo “remar contro” la posizione del governo di cui faceva parte, la nomina a Segretario generale della Nato. Tutti i gusti sono gusti. Frattini è un magistrato, consigliere di Stato. Si direbbe che non gli è andata bene. È tornato a fare il suo mestiere.
Ma un vero e proprio concorso in un reato contro il libero esercizio delle funzioni di Presidente del Consiglio per vincerne la riluttanza a dare una mano all’aggressione anglo-francese lo ebbe la Magistratura Ordinaria. I magistrati e le magistrate delle Procure e dei Tribunali di mezza Italia, impegnati in una frenetica operazione di rottamazione e di demonizzazione di Berlusconi. Il Partito dei Magistrati aveva per suo conto già ridotto Berlusconi in una condizione tale da non potere affrontare uno scontro aperto con un capo dello Stato che dimostrava di “giuocare sporco”. Non c’è bisogno di accertare se, in quella contingenza, vi furono appositi e specifici contatti del Quirinale con esponenti della Magistratura. Né vi è bisogno di fare ricorso alla figura giuridica (si fa per dire) del “concorso esterno”. È singolare che la magistratura, che ha una particolare propensione per l’affermazione della esistenza di fumosi complotti e di malefatte di ogni genere dei poteri forti, in questo caso in cui il complotto con lo straniero è provato e se ne conoscono i responsabili, non abbia sollevato il benché minimo sospetto al riguardo. E non è un caso che di questo attentato vero alla Costituzione e di questo vero tradimento del nostro Paese, il Partito dei Magistrati, sia stato, invece, parte corresponsabile di primo piano.
Che cosa si ripromettesse Napolitano, oltre alla rottamazione di Berlusconi e dal suo definitivo accantonamento, non lo sappiamo. Del resto è abbastanza naturale che egli cercasse anche sul piano internazionale, di vedere apprezzato il suo recente e fragile presagio all’Occidente (certo non al meglio di esso).
Anche se l’“Alto tradimento”, cui fa riferimento l’articolo 90 della Costituzione non trova nel Codice penale una collocazione e una specificazione che sarebbero state opportune, è certo che l’atteggiamento di Giorgio Napolitano in quella vicenda, sia per il debordare dai limiti della sua pure altissima funzione, sia per quel gravissimo ricorso che egli avrebbe fatto al ruolo di capo delle Forze armate per costringere il responsabile del Governo e della politica generale del Paese a desistere da ogni riluttanza ad un atto di guerra, sia perché così operando erano favoriti interessi stranieri e danneggiati quelli economici e politici del nostro Paese, è chiaro che si è trattato di alto tradimento.
Oggi 23 marzo 2018, il responsabile di quel reato presiede, come il senatore più anziano, il Senato nella sua prima seduta della nuova legislatura. È fuori del Parlamento, “in castigo”, la vittima “personale” del tradimento: Silvio Berlusconi. Che, se è colpevole, è colpevole di non aver gridato alto e forte che il crimine veniva commesso. Contro di lui, ma anzitutto contro l’Italia.
Aggiornato il 22 marzo 2018 alle ore 17:02