Corruzione? ora ci penserà il Papa

Qualcuno leggendo i giornali può darsi che abbia ripetuto la famosa battuta di scena di Nino Manfredi: “fusse ca fusse la vorta bona?!”.

Grossi titoli annunziano, a seguito di un autorevole convegno, possibile scomunica di mafiosi e corrotti. Per ciò che riguarda i mafiosi non credo sia una novità. Anzi, ero convinto, io che di queste cose sono un orecchiante, che vi avesse già provveduto Giovanni Paolo II. Forse “repetita iuvant” Francesco, comunque, l’aveva annunziata a Cassano Ionio,

Ma, visto l’esito di quell’intervento papale, che in qualche forma ci fu, sembra giustificato il linguaggio ipotetico e prudente, per quel che riguarda la mafia della nota ufficiale del “Dicastero per il servizio dello sviluppo umano integrale”, altra scoperta che abbiamo potuto fare, assieme a quella dell’esistenza, nientemeno, di un “presidente dei moralisti italiani” tale Basilio Petrà, non so se ecclesiastico o laico.

In passato avevamo avuto casi di “scomuniche” intimate alle cavallette che invadevano e devastavano i campi, ma da parte di Vescovi e non del Papa che, in Vaticano delle cavallette poco aveva a preoccuparsi. È singolare che nella solita intervista del presidente moralista Petrà (mi scuserà se ometto qualche titolo che gli spetta) la questione della scomunica ai mafiosi è affrontata quasi al volo. La scomunica interverrebbe “latae sententiae” all’atto stesso in cui il peccatore entra a far parte dell’organizzazione mafiosa. Il moral-presidente e, forse, lo stesso convegno (con la partecipazione, naturalmente, di numerosi magistrati (italiani) “antimafia) non si è posto la questione del “concorso esterno” che rimarrà dunque, oltre che un “reato giurisprudenziale”, un peccato “parrocchiale” o “episcopale”.

Ma quanto alla corruzione il Petrà ha ammesso che “è un atto più difficile da determinare…andrebbero individuate le forme, circoscritti gli ambiti ed i criteri di complicità e via di questo passo…un’articolazione molto vasta...”. La comparazione con il pasticcio della descrizione (416 bis) della mafia nel codice italiano è, dunque, piuttosto approssimativo. Ma tutto ha una spiegazione. Parlare di corruzione in Vaticano è come parlare di corda in casa dell’impiccato.

Quando il Papa era il Sovrano dello Stato Pontificio, questo era la patria della corruzione. Corrotti camerieri, parroci, minutanti, monsignori, cardinali, giudici e prelati di Santa Romana Chiesa, con i loro parenti, nipoti, amanti. Basta leggere i sonetti di G.G. Belli per avere un’idea della pesante atmosfera di corruzione generale che gravava nella città di Roma e in tutto lo Stato. E, poi, c’era la piaga delle “raccomandazioni”, necessarie per le piccole e per le grandi cose d’ogni genere da affrontare e risolvere. E le mance, la corruzione spicciola era addirittura oggetto di regolamentazione con editti di cardinali giudici, prelati e parroci. Si pagava la mancia ai camerieri del Papa per esser ammessi alla sua sacra presenza “per logoro di tappeto” e così via.

Né si trattava solo del “praticar male” di chi, poi, “predicava bene”. A scomunicare i corrotti dovrebbe essere, oggi, guarda caso, un Papa gesuita. Si capisce, quindi, un certo imbarazzo che trapela nel “mettere le mani avanti” del Presidente moralista vaticano che dice ai giornalisti che “la corruzione è un atto più difficile da determinare...”.

Non è più di moda Biagio Pascal e sono pochi a sapere che cosa fosse il Giansenismo. Ignote o quasi, anche perché assai poco diffuse ne sono edizioni anche moderne, sono le “Lettere Provinciali” e la parte di esse dedicata alla morale dei Gesuiti. È singolare che a pronunziare la scomunica contro la corruzione ed i corrotti, superate le difficoltà teoriche cui alludeva il Petrà, dovrebbe essere, nientemeno, un para gesuita, anzi l’unico gesuita asceso alla soglia di Pietro.

Perché è nella tradizione gesuitica e nelle predicazioni dei “Casuisti” della Compagnia al massimo della sua potenza, primo tra tutti il Molina, citato spesso e volentieri, appunto, da Pascal, una serie di “accomodamenti morali” che, con la qualifica di “opinioni probabili” erano sufficienti a tranquillizzare le coscienze, così da rendere più vasta la “clientela” dei confessori gesuiti. A proposito della corruzione. Molina, ce lo ricorda Pascal, insegnava che occorre fare distinzioni circa il comportamento di chi dà denaro e donativi ai giudizi, agli “amministratori” (come li chiameremmo oggi). Se i donativi, i denari, sono dati “a fin di bene”, ciò per i gesuiti non era (ed è?) da considerare peccato. Così, in fondo, a fin di bene sarebbe (è Molina che parla) “dare doni ai giudici perché esaminino con maggiore attenzione la causa, considerino con più ampia benevolenza la posizione del donante. E perché decidano più sollecitamente”. E quel che si dice delle cause e delle sentenze può estendersi a licenze edilizie, conferimenti di appalti etc. etc..

Che ne penserà Papa Francesco di Molina? Per quanto sommamente autorevole il “casuista” spagnolo, ad essere infallibile è lui, il Papa. benché gesuita di periferia, di “colonia”. Ma anche ai tempi di Molina c’erano dei papi infallibili (la dichiarazione di infallibilità del Consiglio Vaticano I, 1870, è certamente “retroattiva”) che approvavano i Gesuiti e se li tenevano cari. E, allora, come la mettiamo?

Ho l’impressione, comunque, che chi attende dalla eventuale scomunica papale effetti per la corruzione ed il suo dilagare maggiori di quelli delle scomuniche episcopali contro le invasioni delle cavallette, rischi di rimanere assai deluso.

Aggiornato il 20 giugno 2017 alle ore 10:50