Matteo Renzi fa la “vittima di cavilli?”

Come ogni vero cialtrone, Matteo Renzi non disdegna di fare la vittima. Dopo aver cercato di giocare la carta del “non è successo niente”, ora cerca di usare quella del “sta succedendo troppo”.

Il troppo sarebbe nell’atteggiamento dell’opposizione interna al Partito Democratico che cercherebbe “pretesti” per fargli del male e starebbe per consumare il sacrilegio di una scissione per una questione di date e di procedure per il congresso e che rivelerebbe l’“inaudita” pretesa di imporre non solo le sue dimissioni, ma anche di infliggergli il “divieto” di tentare di farsi rieleggere al posto di segretario.

Premetto che le vicende interne del Pd non mi commuovono neanche un po’ e non mi interessano più che tanto, cioè poco assai. Ma, come il “non è successo niente”, che tutta la banda dei sostenitori del “Sì” al referendum ha cercato di far passare, allo scopo di irridere quanti si erano battuti senza esitazioni e riserve per il “No”, non poteva essere tollerato e doveva (e deve) essere denunciato, anche lo “sta succedendo di troppo” di fronte alle reazioni del Pd al capitombolo del suo disinvolto e spregiudicato condottiero nell’avventura referendaria, non è questione solo interna di quel partito. Direi che è questione di decenza politico-morale. La reazione del Pd nei confronti di Renzi è stata ed è, in realtà, moscia e del tutto inadeguata. Parlo di quella della cosiddetta Sinistra, degli “scissionisti”.

Se Renzi avesse del Partito Democratico (e, in genere, del “suo” partito) una concezione appena adeguata per livello morale e di generosità che si addica al ruolo di capo carismatico che intende attribuirsi, non sarebbe stato a “dosare” e, sostanzialmente, a simulare, la sua uscita di scena e tanto meno a mestare per assicurarsi di rimanere inchiavardato sulla sua poltrona. E le dimissioni da segretario del Pd le avrebbe date contemporaneamente a quelle da Presidente del Consiglio. Avrebbe fatto quello che un capo fa in certe catastrofi: sacrificare se stesso per salvare l’onore e la pelle delle sue schiere. Non potendo sostenere che “non è successo niente”, Renzi vuole convincere i suoi sostenitori (forse soprattutto quelli meno noti) che “è successo poco”, una riforma andata male, incompresa... E no, cari signori! Il referendum non è un “incidente sulla via delle riforme” e la sconfitta che Renzi vi ha trovato non è un “episodio” qualsiasi, né per lui né per il partito.

Più volte, durante la campagna per il voto di dicembre, si è tornato sul fatto che era stato proprio Renzi a “personalizzare” il referendum annunciando che, se non avesse vinto il “Sì”, se ne sarebbe andato. A casa, come disse in un primo tempo, per poi ripiegare su un inconsueto “riconoscimento di un errore” consistente nel dare al voto un significato relativo “al suo governo”. Ma queste erano schermaglie tattiche, chiacchiere tra le chiacchiere di un giovane chiacchierone. In realtà, indipendentemente da quella “imprudente” dichiarazione, il referendum era stato concepito come una investitura particolare, al di fuori delle procedure e dei principi costituzionali per il “comando” a Renzi, che avrebbe voluto divenire “capo plebiscitario” della Repubblica, mentre il Pd sarebbe divenuto automaticamente il “Partito della Nazione”, sostanzialmente “monocratico”.

Non è una valutazione personale, un’impressione malevola. Si è troppo facilmente dimenticato che Renzi il referendum non se lo è trovato tra i piedi, come conseguenza del mancato raggiungimento del quorum di maggioranza assoluta in Parlamento, come estrema difesa dell’opposizione già battuta in quella sede. Renzi non ha atteso che altri (parlamentari di opposizione, cittadini firmatari, Regioni, come prevede la Costituzione) chiedessero quell’ultima prova: ha mandato subito i “suoi” parlamentari in Cassazione a richiedere il referendum. Ha voluto trasformarlo in una sfida, in un plebiscito per lui e per il Pd. In una sfida del genere, arrogante e pretenziosa, soprattutto tale da lasciar intravedere l’uso che, poi, lo sfidante avrebbe fatto della vittoria, la sconfitta non è limitata all’oggetto formale, alla conferma o meno di quella riforma. Uno sfidante che se l’è andata a cercare, se perde va a casa. O, magari, se ne va all’estero. E se vuole ricordarsi del partito che ha coinvolto nella catastrofe, ci tiene a dire e ripetere che la responsabilità è sua e solo sua.

Altro che cavilli! L’unica cosa di buono che Renzi avrebbe potuto fare per il Pd sarebbe stato dimettersi subito da segretario, uscire di scena. Se no il Pd (tutto quanto) glielo avrebbe dovuto imporre. E allora altro che cavilli! A casa! A casa! E non solo Renzi. C’è tutto da rifare. La gente è migliore della classe dirigente. Basta con gli avventurieri, gli asini, i “tira a campà”.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 22:45