Il dramma dei cristiani del Sahel

I Paesi del Sahel occidentale – tra colpi di Stato, attacchi jihadisti, ambigue cooperazioni internazionali dove si confrontano milizie private e i “nuovi Wagner” – si collocano in una delle aree più instabili dell’Africa. Osservando Burkina Faso, Mali e Niger, nell’articolato quadro dei continui golpe che creano delle effimere e complesse stabilità, emerge una tendenza verso l’islamizzazione della politica, ma anche la presenza di forti e frammentate correnti anarco-jihadiste che colpiscono ogni aspetto della società e del mercato. In questo contesto, in Niger e Burkina Faso i fondamentalisti musulmani sono i primi a esporsi nelle manifestazioni a supporto dei militari golpisti visti come liberatori, mentre con più tortuosa “realtà” presenziano in Mali.

Così, in Niger – nella grande moschea di Niamey – l’imam salafita Souleymane Maiga Mounkaila, da febbraio, durante la “preghiera del venerdì”, in più occasioni ha indugiato nel sostenere la scelta dei golpisti di ritirare il loro Paese dall’Ecowas, Comunità economica degli Stati dell’Africa occidentale, come scritto in un mio precedente articolo su questa testata il 2 febbraio. Improbabili e strumentali slogan, come “marcia rivoluzionaria” e “lotta contro l’imperialismo”, echeggiano paradossalmente tra le pareti della moschea. Ma la massa dei fedeli poco considera la realtà dei fatti che rappresenta una involuzione di quel poco di libertà guadagnata dopo il travagliato periodo post-coloniale.

Nei Paesi del Sahel occidentale la corrente “panafricanista”, oggi supportata dai musulmani, serpeggia tra i social network e nelle strade. Qui le mobilitazioni a favore dei militari autori del colpo di Stato, che ha rovesciato il presidente nigerino Mohamed Bazoum il 26 luglio 2023, si moltiplicano. I “predicatori” si mescolano con i manifestanti, assumendone la guida, tutti orgogliosi della cacciata dei francesi dal territorio. Ma la connotazione più evidente è che la religione islamica si è ritagliata un ruolo politico determinante. Infatti, in una intervista, l’imam Mounkaila ha affermato: “Quando è il politico a parlare, il musulmano esprime delle riserve; ma quando gli diciamo che è il profeta che sta parlando, vuole andare in battaglia”.

Quindi, in Niger e Burkina Faso, al momento, i regimi godono del sostegno dei leader religiosi musulmani, sicuramente ben strutturati tra le maglie della società e più diretti nella comunicazione. Non esattamente speculare è la situazione in Mali, dove l’imam Mahmoud Dicko è oggi uno dei critici più accesi del regime golpista e chiede il ritorno dei civili al potere. Dicko è stato uno dei principali provocatori delle proteste popolari che hanno causato la caduta del presidente Ibrahim Boubacar Keïta nel 2020 e colui che ha sostenuto, con molti mezzi, il colonnello Assimi Goïta presidente del Comitato nazionale per la salvezza del popolo, ovvero il “dittatore” ad interim del Mali.

Una considerazione va fatta sull’ascesa al potere, in Burkina Faso, del capitano Ibrahim Traoré nel settembre 2022. Traoré è stato il primo capo di Stato musulmano dal 1980, in un Paese in cui l’islam rappresenta circa il sessanta per cento e il Cristianesimo, con le sue articolazioni, il venticinque per cento circa. La conquista del potere da parte di un musulmano ha agevolato il coinvolgimento della comunità wahhabita, espressione “ideologica” saudita, incarnata dall’Msbf, Movimento sunnita di Burkina Faso e di altre correnti islamiche. Il popolo musulmano che affianca queste forme di condivisione religiosa si mobilita con l’obiettivo di condizionare il corso della transizione politica, dando uno spazio maggiore ai musulmani, visto che ritengono che i cristiani abbiano monopolizzato la politica del Paese dall’indipendenza. Insomma, una emarginazione politica basata sul credo religioso.

Comunque, il leader spirituale del Msbf, di scuola saudita, l’imam Mohammad Ishaq Kindo nelle sue omelie invita a sostenere lo sforzo bellico contro i gruppi jihadisti che dilagano in gran parte del territorio e nell’area dei tre confini: Mali, Burkina Faso, Niger. La sua moschea accoglie regolarmente i leader politici. E anche in questo Paese i salafiti sono i primi a sostenere le manifestazioni a sostegno della transizione militare, rispolverando slogan antifrancesi molto popolari tra la massa, oltre a incitare per la cooperazione con la Russia, ormai partner imprescindibile.

La realtà globale è il netto fallimento delle politiche di sviluppo occidentali e la cronica corruzione delle ex élite africane ad esse legate. Infatti, questi regimi vagamente democratici nati a partire dagli anni Novanta, e sostenuti dall’ex potenza coloniale francese, hanno generato grandi delusioni di fronte alle quali una certa forma di ritorno all’ordine morale, religioso, rappresenta l’unica alternativa. Quindi, un ritorno fisiologico a una de-laicizzazione, un inserimento della religione islamica prepotentemente all’interno delle “faccende” politiche, soprattutto di matrice golpista. Il tutto nel quadro di una visione antioccidentalista che danneggia comunque le realtà cristiane presenti nella regione. In tale contesto, si celebra il funerale della laicità seminata dall’Occidente; i diritti delle donne, degli omosessuali, hanno sì spaccato la società ma a oggi contrastano con i valori dell’Islam. In Mali è già vietando l’uso del narghilè; in Niger le preghiere di strada e l’uso del velo sono diventati in questi ultimi anni la norma; le scuole coraniche si sono diffuse in tutti i quartieri capillarmente. Insomma, una de-laicizzazione dalla velocità esponenziale che favorisce l’accanimento contro il fragile mondo cristiano sia da parte delle autorità politico-religiose, sia da parte dei movimenti jihadisti anarchici – od organizzati – che siano. Molto spesso il tutto lontano dalle attenzioni internazionali.

Aggiornato il 28 febbraio 2024 alle ore 09:58