Trump e l’Ucraina: più Putin che Zelensky

E se alle elezioni presidenziali americane del 2024 rivincesse Donald Trump, come cambierebbe il mondo? In che modo, a suo dire, The Donald potrebbe mettere fine in sole 24 ore al conflitto ucraino, avvalendosi dei suoi vantati, ottimi rapporti con entrambi i contendenti, tanto da obbligarli a sedersi a un tavolo comune delle trattative di pace?

In concreto, sarà difficile che riesca a consolidarsi l’illusione che l’ex Presidente sta tentando di vendere all’opinione pubblica conservatrice americana, per cui basteranno i suoi buoni uffici per far dimenticare alla popolazione ucraina e al resto del mondo il sacrificio di centinaia migliaia di giovani vite (soldati russi inclusi), e la distruzione letterale del paesaggio urbano, agricolo e infrastrutturale di un intero Paese.

Certo, il profilo politico di The Donald appare molto più vicino all’autocratico Putin che al suo avversario, data la coincidenza di vedute ultraconservatrici in materia di tutela dei valori familiari e religiosi, in feroce opposizione con il politically correct e con le minoranze agguerrite degli Lgbtq+.

Probabilmente, sarà ancora una volta il Deep-State a dare il consiglio giusto al neo eletto presidente repubblicano, in modo da superare con la necessaria concretezza le solite, inconcludenti rodomontate trumpiane di mettere fine in poche ore a una guerra di cui a tutt’oggi non si intravvede né la fine, né una proposta decente di compromesso per la pace.

Il suggerimento più probabile che verrà dato al Capo supremo delle Forze armate Usa da parte dell’establishment-ombra, denominato Deep-State, detentore della informazione che conta, occupando i posti chiave negli alti ranghi militari e civili americani, sarà proprio quello di garantire in un nuovo Trattato internazionale la sicurezza della Russia e il rinnovo degli accordi di non proliferazione nucleare. In quella nuova cornice, dovranno essere fornite adeguate garanzie per la sopravvivenza e la ricostruzione dell’Ucraina, ai fini del mantenimento della sua indipendenza, facendone una sorta di Svizzera slava. Per questo, bisognerà parlare seriamente con Putin e con Zelensky e, certamente, aiuterebbe in tal senso il carattere istrionico e imprevedibile di The Donald, come si è visto in occasione dell’incontro nel 2019 con il dittatore nord-coreano, Kim Jong Un. 

Kiev, in pratica, dovrà barattare la cessione di parte dei suoi territori occupati, in cambio di benessere economico garantito dall’Occidente, in modo da ricondurre in patria gran parte della sua diaspora. Probabilmente, Zelensky, o chi per lui, dovrà rinunciare all’adesione sia alla Ue che alla Nato, controbilanciata dall’ingresso di Kiev all’area di libero scambio europea e al mantenimento di un proprio esercito, con moderne forniture di armi da parte dell’Occidente, in modo da poter provvedere autonomamente alla sua difesa territoriale.

Del resto, anche per un eventuale vittorioso Donald Trump incombe sempre la minaccia dell’anatra zoppa, qualora il Partito Repubblicano non consegua una solida maggioranza sia alla Camera dei Rappresentanti che al Senato degli Stati Uniti. In tal caso, qualora i democratici prevalgano nell’uno o nell’altro ramo del Congresso, non sarà facile per il neo eletto presidente disimpegnarsi più di tanto dal sostegno militare a Kiev.

Del resto, già nella situazione attuale, il Grand Old Party è fratturato ideologicamente al suo interno in almeno tre componenti, che tendono a differenziarsi notevolmente in merito alla guerra in Ucraina. La prima, nota come primatista, fa capo a Nikky Haley e Mike Pence, che fa da snodo politico al palese consenso dell’establishment per una sconfitta strategica della Russia, ritenuta vitale per la sicurezza nazionale dell’America, mantenendo fermo nel tempo il supporto militare all’Ucraina fino alla vittoria finale. Mentre il mantra di Haley è “la vittoria dell’Ucraina è quella di tutti noi”, quello di Pence è più moderato: “la guerra in Ucraina non è la nostra guerra, ma la libertà viene prima di tutti”.

Gli altri due gruppi repubblicani si dividono in restrainers, contrari all’invio di ulteriori armi all’Ucraina, perché l’America deve primariamente concentrare gli sforzi all’interno dei suoi confini, piuttosto che all’esterno, e in prioritisers, il cui alfiere è Ron DeSantis, diretto sfidante di Trump alle primarie. Questi ultimi, vedono nella Cina la vera minaccia alla supremazia e alla sicurezza degli Stati Uniti, per cui non vale la pena concentrarsi sull’Ucraina che, alla fin fine, rimane un problema eminentemente europeo. Pertanto, sia per gli uni che per gli altri, svuotare gli arsenali statunitensi per sostenere l’Ucraina mina la capacità militare degli Stati Uniti di fronteggiare un’eventuale invasione cinese di Taiwan.

Per inciso, come ampiamente dimostrato dalle analisi degli esperti militari occidentali, in una guerra di logoramento sarebbe la Russia a prevalere, dato che l’Ucraina non può competere con il suo ingombrante vicino per risorse e riserve di soldati da impiegare in battaglia.

Né gli alleati possono stare minimamente al passo con l’economia di guerra instaurata da Putin, per quanto riguarda le forniture militari e le spese belliche. Infatti, al contrario dell’autocrate di Mosca, i leader occidentali debbono tenere conto sia delle loro opinioni pubbliche, sempre meno entusiaste nel sostegno a Kiev, sia dell’obiettiva incapacità delle industrie degli armamenti europee e americane di tenere il passo con la produzione bellica russa, per quanto riguarda i proiettili di artiglieria, le flotte di droni e i mezzi corazzati.

La sperequazione esistente, del resto, è ben nota a tutti: mentre le acciaierie e l’industria pesante ucraina sono state rase al suolo dai missili e dall’aviazione di Putin, viceversa gli impianti industriali russi continuano a funzionare a pieno regime e a incrementare la produzione di armamenti, ampliando i relativi siti produttivi esistenti e creandone di nuovi. Né è davvero pensabile che nel futuro l’America possa fornire a Kiev l’armamento missilistico necessario a lunga gittata ed estrema precisione, per andare a colpire gli insediamenti produttivi militari in territorio russo, dato che a questo punto si avvicinerebbe pericolosamente il rischio di un conflitto mondiale.

Ma, non importa quello che farà Trump, purché risulti chiaro che l’Occidente non tollererà mai più ai suoi confini un’aggressione militare contro un Paese libero.

Aggiornato il 10 ottobre 2023 alle ore 10:25