L’Afghanistan e la riscoperta dell’isolazionismo

Alla fine i talebani ce l’hanno fatta. A distanza di venti anni dall’inizio della missione militare occidentale hanno ripreso il potere in Afghanistan. Fa sicuramente riflettere che ciò sia avvenuto quasi senza il bisogno di combattere. Gli integralisti islamici, infatti, non hanno fatto altro che attendere pazientemente nell’ombra per tutti questi anni, aspettando il giorno in cui gli americani e i loro alleati europei avrebbero lasciato la loro terra, per riprenderne il controllo.

Quando le truppe occidentali si sono ritirate, i talebani hanno ristabilito il loro controllo sull’Afghanistan, di fatto vanificando tutti i progressi morali, civili, sociali, economici e politici compiuti negli anni dell’occupazione. Nel ventennio appena trascorso, infatti, l’Afghanistan aveva iniziato a cambiare volto: le donne avevano potuto togliersi il burqa e andare a scuola; si era avviato un processo di democratizzazione; sotto la guida occidentale, il Paese aveva iniziato a dotarsi di un esercito moderno. L’obiettivo di tutto questo, tuttavia, era quello di rendere l’Afghanistan un Paese auto-sufficiente, cioè capace di reggersi in piedi “sulle sue gambe”. Il dato che pare sfuggire ai commentatori e agli analisti politici nostrani sembra essere proprio questo: la presenza occidentale nel Paese era solo temporanea.

A questo proposito, è incredibile quello che si sente dire nei talk-show di mezzo mondo sulla questione. I più sono concordi nell’affermare che l’Occidente (e in particolar modo gli Stati Uniti) abbia commesso un tragico errore. Non solo il ritiro delle truppe è stato interpretato come un segno di debolezza – il che galvanizzerebbe ulteriormente le milizie fondamentaliste afghane, oltre che i musulmani radicali e i terroristi, reali o potenziali, di tutto il mondo – ma ha permesso alle truppe talebane di riprendersi un Paese che stava facendo progressi notevoli in materia di democrazia e libertà civili e di invalidarli.

Secondo costoro, il ritiro delle truppe dall’Afghanistan sarebbe la sconfitta dell’Occidente, o almeno un clamoroso “autogoal”. Abbiamo sostanzialmente fallito nella nostra missione di esportare e imporre manu militari la democrazia e i diritti di libertà nella società e nella politica afghana. Sotto accusa è la riscoperta della logica isolazionista da parte degli Stati Uniti, prima sotto la presidenza di Donald Trump e ora sotto quella Joe Biden (che sembra non volersi distaccare troppo dal suo predecessore, almeno dal punto di vista della strategia geo-politica), dopo la lunga parentesi neoconservatrice che va da George Bush senior fino a Barack Obama. L’Occidente non può voltarsi dall’altra parte e disinteressarsi di ciò che avviene oltre i suoi confini geografici e culturali. Ora è probabile che l’isolazionismo stia tornando di moda negli Usa, se consideriamo che contrariamente al calo di popolarità di cui, secondo i media europei, sarebbe vittima Biden in seguito alla scelta di “battere in ritirata”, più del settanta percento dell’opinione pubblica americana è convinta che l’Afghanistan debba essere reso responsabile di se stesso e che non possa continuare a dipendere dalla protezione e dall’aiuto degli Stati Uniti.

Il punto è proprio questo. Anzitutto, tanto Trump quanto Biden si sono unicamente fatti interpreti del sentire popolare (come dovrebbe essere in una democrazia, almeno in linea teorica). In secondo luogo, si tratta precisamente di una questione di responsabilità: se gli afghani non sono capaci di conservare i progressi fatti negli ultimi anni, se non sono disposti a difendere la loro libertà e il loro Paese, per quale motivo dovrebbero esserlo gli occidentali, che non hanno alcun interesse in questo senso? Per quale motivo – chiedo ai neoconservatori di tutti i partiti – dovremmo continuare a sperperare i soldi dei contribuenti occidentali (si stima che dal 2001 a oggi solo gli Stati Uniti abbiano speso un trilione di dollari per finanziare la missione in Afghanistan) e a mandare i nostri militari a rischiare la vita in una guerra che non ci riguarda e che non è nel nostro interesse combattere?

Non si cerchi – a questo riguardo – di mettere in mezzo la sicurezza globale e la lotta al terrorismo: gli attentati si sono comunque verificati in tutto l’Occidente, nonostante la nostra presenza in Afghanistan. Questo, a sua volta, per due motivi estremamente semplici: primo, nella fede e nella cultura islamica la violenza è una componente fondamentale e ineliminabile; secondo, la lotta al terrorismo non è una questione di politica estera, ma di politica interna. I terroristi non stanno in Afghanistan, ma ce li abbiamo in casa nostra. Sono in mezzo a quelli che ogni giorno sbarcano sulle coste della Sicilia o che attraversano illegalmente la frontiera francese, svizzera o austriaca. Sono in mezzo ai “nuovi cittadini” che trovano nel radicalismo islamico talvolta un fattore capace di riconnetterli alle loro radici o di farli sentire parte di una comunità; talvolta un’alternativa rispetto a una cultura occidentale dalla quale si sentono marginalizzati e con la quale non sono in grado di confrontarsi; talvolta una risposta al “vuoto di valori” che secondo molti caratterizza la postmodernità e che se da una parte favorisce un relativismo estremo, dall’altro incentiva la riscoperta delle ideologie e dell’estremismo religioso nella disperata ricerca di certezze e di principi per mezzo dei quali riempire quel “vuoto” e attribuire un significato più profondo, uno scopo più alto, alla propria esistenza.

Dunque, la vera colpa dell’Occidente non è quella di aver ritirato i propri soldati e di aver preso finalmente coscienza del fatto che questa specie di missioni sono inutili e costituiscono un esecrabile spreco di denaro pubblico, ma quella di non aver saputo controllare i propri confini; di essersi lasciato invadere da milioni di individui di diversa cultura che era prevedibile non sarebbero riusciti a integrarsi o che l’avrebbero fatto in maniera incompleta e precaria; di non essersi saputo imporre dimostrando loro la superiorità morale e civile dei suoi valori e della sua cultura; di aver lasciato che essa venisse progressivamente resa marginale e che diventasse “una tra le tante” non nel mondo (come è giusto che sia), ma in casa propria.

Il terrorismo non si combatte con le missioni all’estero, ma con la difesa della propria nazione. Non si tratta di una questione geo-politica, ma di sicurezza nazionale. A ben guardare, non esiste nessuna “sicurezza globale” che non sia il prodotto dello sforzo congiunto di tutte le nazioni nell'occuparsi della propria sicurezza interna. La soluzione di questa problematica, dunque, non sta nel bombardare le nazioni sospettate di avere legami, reali o presunti, col terrorismo – e a questo punto è lecito domandarsi perché l’Afghanistan sì, e non invece le monarchie del Golfo, essendo noti i legami di natura economica tra queste e le reti terroristiche attive in Occidente – nell’inviare truppe a destra e a sinistra o nel promuovere processi di democratizzazione per i quali mancano i necessari presupposti culturali, ma semplicemente nel fare ciascuno la propria parte per rendere l’Occidente una vera e propria fortezza, impenetrabile a qualsiasi pericolo o minaccia esterna.

Un luogo di libertà, di diritti e di democrazia, senz’altro. Ma un luogo tutto nostro, uno spazio da difendere. Nemmeno si può dire che bisogna evitare che il “vuoto d’influenza” lasciato dall’Occidente venga riempito dalla Russia e dalla Cina. Queste due potenze, infatti, sono diventate le “architravi” dell’anti-occidentalismo e possiamo supporre che, in un futuro nemmeno troppo lontano, saranno gli Stati-guida di una grande coalizione alternativa e ostile all’Occidente. Si tratta di un processo inevitabile, dal momento che tutte le nazioni autoritarie tendono naturalmente a convergere e a stipulare alleanze con gli Stati più simili a loro, che non con le democrazie liberali. Tutto quello che l’Occidente può fare in proposito – proprio come col terrorismo – è difendere la propria sfera d’influenza “naturale”, presidiarla e rafforzarla il più possibile, senza cercare di estenderla coattivamente, con guerre e rivendicazioni imperialiste.

Sono persuaso del fatto che una coalizione euro-americana – guidata dagli Stati Uniti e con una Europa federale o confederale, dotata quindi di un esercito e di una politica estera comune – che includa anche il Canada, l’Australia e la Nuova Zelanda (magari anche il Giappone), ben armata, fiera dei propri valori e intenzionata a difenderli, non possa avere eguali nel mondo. Disponiamo di una superiorità tecnologica, militare, civile, morale e culturale che nessuno può sfidare. I russi potranno essere più aggressivi e i cinesi più numerosi. Potranno convincere il mondo arabo o quello africano a unirsi a loro. Ma niente di tutto questo gli servirà dinanzi a un Occidente unito, armato, innamorato della sua libertà e intenzionato a difenderla, tanto dai nemici interni quanto da quelli esterni.

Concludo dicendo che non c’era alcuna ragione per cui la coalizione occidentale dovesse trattenersi in Afghanistan: in realtà, non c’è mai stata. Si è trattato di una guerra sbagliata dal principio: ci saremmo dovuti limitare a rispondere commisuratamente all’attacco alle Torri Gemelle, senza pretendere di portare i valori liberali e democratici in contesti socio-politici che non costituiscono per essi un terreno fertile. Il ritorno dei talebani è la vittoria dell’isolazionismo e dell’Occidente: è la conferma che, per quanto noi ci si voglia illudere circa l’universalità dei nostri valori e dei nostri costumi, essi rimarranno sempre il prodotto dell’esperienza e del percorso storico-sociale di un popolo o di una civiltà. Possiamo provare quanto vogliamo a imporre le nostre regole e il nostro stile di vita altrove, ma gli altri popoli percepiranno sempre tutto questo come una prepotenza, come un insopportabile atto di coercizione e si sbarazzeranno presto di tali “innovazioni” non appena avranno l’opportunità di farlo. Quanto è accaduto in Afghanistan dimostra che ogni popolo ha la sua cultura e che essa non può essere lavata via con un colpo di spugna.

Dimostra che le libertà occidentali sono un prodotto della nostra storia e della nostra tradizione. Dimostra che i nostri valori non sono universali e che l’interventismoculturale” proprio della declinazione geo-politica del socialismo (il neo-conservatorismo) produce sulle popolazioni coartate lo stesso effetto che l’interventismo statale in economia produce sull’equilibrio di mercato: dopo un primo momento in cui tutto sembra andare per il meglio, si verifica un qualche evento che riporta le cose al loro stato naturale, una sorta di riaggiustamento: la si chiami crisi economica, rivoluzione o restaurazione, il senso e le implicazioni non cambiano. Per il resto, non è compito nostro garantire stabilità politica, libertà e prosperità a tutti i popoli: ciascuno di essi deve raggiungere tali traguardi sulla base dei propri sforzi e delle proprie capacità. Ciascun popolo deve essere responsabile di se stesso. Non abbiamo alcuna investitura “divina” in questo senso.

Se è stato così facile per i talebani riprendere il potere, se è avvenuto in maniera quasi spontanea, quasi senza nessuno che opponesse resistenza – a parte i gruppi di Massoud, nemmeno l’esercito regolare ha voluto combattere o provare a fermarli – è perché doveva avvenire; perché è naturale, per certi popoli, sottostare a regimi simili. Non sono fatti per la democrazia o per la libertà come noialtri, non la vogliono e non saprebbero che farsene, come i fatti mi pare abbiano dimostrato. I neo-conservatori rileggano “Lo spirito delle leggi” di Montesquieu: potrebbero trovarlo illuminante per capire un principio semplice come quello appena enunciato.

Aggiornato il 24 agosto 2021 alle ore 10:27