Catalogna indipendente? Note relative in un’ottica geopolitica

La crisi catalana presenta, indubbiamente, molte sfumature ed appare di tale complessità da rendere impossibile - nonché poco seria - qualsivoglia lettura improntata al “tifo” per l’una o l’altra parte in causa. Infatti se dalla parte degli indipendentisti di Barcellona stanno molte buone ragioni che si fondano sul diritto all’autodeterminazione dei popoli e su una lunga e difficile storia del matrimonio forzato con Madrid - che si può far addirittura risalire all’antica fusione tra Castiglia ed Aragona, dalla parte del governo centrale spagnolo stanno altrettante ragioni non meno valide.

A partire dal principio che l’integrità di uno Stato non può essere messa in discussione da una parte minoritaria senza il consenso del resto del Paese. Caso che, a memoria recente, si è verificato solo nella separazione consensuale fra cechi e slovacchi dopo la crisi del regime comunista di Praga. Non si deve infatti dimenticare che la ricchezza della Catalogna - la regione più progredita che da sola produce oltre un quinto del Pil spagnolo - è dovuta, in primo luogo, alla possibilità di un vasto mercato interno costituito dalla Spagna nella sua totalità, nonché agli investimenti favoriti dalla politica “federalista” di Madrid dopo la fine del regime di Franco. Non stiamo parlando, naturalmente, di una qualche “gratitudine” che i catalani dovrebbero al resto dei concittadini spagnoli, bensì di una realtà con la quale un ipotetico Stato catalano indipendente dovrebbe fare i conti.

Privata del mercato interno della Spagna, Barcellona si troverebbe anche in gravi difficoltà in Europa, perché è certo che Madrid porrebbe immediatamente il veto al suo ingresso nella Ue e, in sostanza, a qualsiasi facilitazione nei commerci continentali. E per quanto lenta e miope - coma sta, anche in questa occasione, dimostrando di essere - l’euro-burocrazia e, soprattutto, le principali Cancellerie continentali non potrebbero non prendere atto che la Catalogna sarà anche la locomotiva dell’economia iberica, ma che ad essere strategica - con il controllo di Gibilterra, lo sbocco tanto sull’Atlantico che sul Mediterraneo, nonché gli stretti legami geopolitici con il Nord Africa - è e resterebbe comunque, anche se amputata, la Spagna.

Certo, le reazioni del governo Rajoy ci sono parse sproporzionate ed improvvide, forse dettate più da un calcolo di bottega elettorale che da una lucida analisi della situazione. Altrettanto miope ed arrogante, tuttavia, sarebbe la proclamazione dell’indipendenza dopo un Referendum in cui a votare è stato poco più del 40 per cento degli aventi diritto. Una decisione che non solo rischia di aprire una tensione al calor bianco con Madrid, ma di far precipitare una regione sino ad oggi prospera e felice quale era la Catalogna, sull’orlo di una guerra civile intestina.

Infine non si deve perdere mai di vista il quadro globale. Un quadro che dimostra come il mito delle “piccole patrie” che nutre i fermenti indipendentisti in Spagna come altrove, rischia di rivelarsi alla lunga funzionale agli interessi di impalpabili entità sovranazionali, grandi poteri finanziari senza radici e senza patria che prospererebbero sempre più in un mondo dove le piccole realtà statuali non sarebbero in grado di fare loro da contrappeso.

Le identità particolari sono, certo, un patrimonio da proteggere e conservare, ma la strada non può essere quella della frantumazione degli Stati nazionali edificati in secoli di storia che, con tutti i loro difetti, rappresentano ancora un pur minimo baluardo contro una sorta di pirateria finanziaria che sempre più sta imperversando per il mondo. Piuttosto si dovrebbe, da un lato, ragionare di autonomia, dall’altro guardare a più grandi, forti e radicate realtà statuali sovranazionali. Quale dovrebbe essere, e purtroppo non è, la nostra Europa.

(*) Senior fellow del think tank di gepolitica “Il Nodo di Gordio

Aggiornato il 05 ottobre 2017 alle ore 22:16