Stati Uniti: è scontro sull’identità del nemico

Un’ampia fetta della popolazione americana, in gran parte fomentata dalle televisioni e dai social network, detesta letteralmente l’amministrazione Trump. In questi primi mesi dall’insediamento di “The Donald” sono scoppiate proteste in molte città, nei confronti della politica ostile agli immigrati provenienti da alcuni Paesi musulmani e dell’assalto ai programmi sociali e alle normative ambientali. Nessun’altra amministrazione è risultata, nelle prime settimane, così screditata e impopolare. In gran parte è tutto vero e condivisibile, sia chiaro. Ma in tutto ciò, cosa fa il Partito Democratico? Sceglie di basare l’opposizione a Donald Trump non su questioni sociali fondamentali, ovvero su politiche vitali per milioni di persone che sgobbano quotidianamente per portare il pane a casa, ma su un altro terreno: sul fatto che Trump sia un burattino della Russia e che abbia raggiunto la presidenza grazie ai pirateschi attacchi contro i sistemi informatici, ordinati da Vladimir Putin. Ogni esponente democratico ha espresso una variazione sul tema che la presidenza di Trump sia il prodotto di un “complotto russo” per sovvertire la democrazia in America.

È ormai chiaro che i ceti affossati dalla crisi economica sono spettatori di un conflitto fra due fazioni che discutono sull’identità del principale ostacolo al permanere del dominio globale americano: i democratici ritengono sia la Russia; per l’amministrazione Trump, invece, è la Cina il bersaglio da colpire, a cui si aggiungono - in secondo piano - l’Iran e la Germania. È quindi obiettivo dell’amministrazione in carica intraprendere una politica estera in grado di scavare un solco strategico tra la Russia, la Cina e l’Iran? Chi non ricorda il precedente stabilito dalla coppia Nixon-Kissinger, negli anni Settanta, nei confronti dei medesimi attori? Il problema di una tale politica, naturalmente, è che qualsiasi conflitto con la Cina e l’Iran renderà difficile raggiungere una pace con la Russia, dato che entrambi sono alleati di lunga data e partner economici di Mosca.

Quando si accusa la Cina di manipolare la propria valuta, le ipotesi sono due: o si è in malafede o si ha la memoria corta. Come hanno potuto, gli Stati Uniti, mantenere un modello economico basato sull’iperconsumo, sostenuto dal debito, se non attraverso la manipolazione della propria moneta? In effetti, se non fosse per lo status del dollaro come valuta di riserva internazionale, e se non fosse che la Cina si è sempre resa disponibile ad acquistarne in gran quantità, l’economia americana sarebbe già crollata da un pezzo. Gli Stati Uniti, dal canto loro, sono stati per la Cina il più grande mercato di esportazione nel corso degli ultimi trent’anni, e il prezzo vantaggioso delle merci cinesi ha contribuito a mantenere basso il costo della vita, in particolare durante i peggiori anni della recessione globale, consentendo agli americani di mantenere un certo livello di consumi. Invece di svalutare la propria moneta, la Cina ha fatto esattamente il contrario scaricando Us Treasury Bonds nel corso dell’ultimo anno per aumentare il valore della sua valuta, il renminbi, rispetto al dollaro. I motivi di questa mossa sono ancora oscuri, forse vi sono ragioni di tipo strategico, considerando la disputa territoriale in corso nel Pacifico e la crescente preoccupazione per l’accumulo delle forze navali americane nella regione, ma questo è difficile da stabilire con certezza.

Per quanto riguarda l’Iran, l’amministrazione Trump appare determinata nel mettere pressione a un Paese definito come “lo Stato terrorista numero uno”, che ha rappresentato un solido polo di opposizione all’egemonia americana nella regione. In realtà, il più grande responsabile di una condotta destabilizzante in Medio Oriente è l’Arabia Saudita, alleato di lunga data di Washington la cui cecità in questo senso è sorprendente e sconvolgente, soprattutto se si considera la responsabilità degli Stati Uniti nel pasticcio in cui versa l’intera regione. Da ultimo, le organizzazioni internazionali per la difesa dei diritti umani chiedono a gran voce che s’indaghi seriamente sui crimini di guerra commessi dalla coalizione a guida saudita nella guerra civile in corso nello Yemen.

Sul fronte tedesco, il primo incontro tra la cancelliera tedesca Angela Merkel e il presidente Donald Trump, a Washington, ha manifestato un evidente deterioramento delle relazioni tra i due Paesi. Il rifiuto di Trump di stringerle la mano durante la loro foto nello Studio Ovale ha attirato l’attenzione internazionale; ne è seguita una conferenza stampa gelida e tesa. In aggiunta, l’ultima conferenza del G20, tenutasi proprio in Germania, si è conclusa con una provocazione: il segretario al Tesoro americano Steven Mnuchin ha impedito l’inclusione della solita dichiarazione a sostegno del libero scambio (e in opposizione al protezionismo) nella dichiarazione finale.

Nessuno dovrebbe sottovalutare il significato storico e politico di questi sviluppi. Un quarto di secolo dopo la dissoluzione dell’Unione Sovietica, i contrasti tra le grandi potenze per l’egemonia sul globo che hanno portato già due volte, nel XX secolo, a terribili sconvolgimenti, sono ancora una volta in eruzione e fremono i preparativi in vista dell’esplosione di nuovi conflitti.

Aggiornato il 09 maggio 2017 alle ore 11:49