Questi sono giorni duri per i nostri rappresentanti parlamentari. Sono i giorni nei quali il fronte, la prima linea dello scontro politico, converge sulla madre di tutte le battaglie: la legge di stabilità. E il Parlamento, un tempo luogo di sacralità civile, si trasforma, secondo una pittoresca immagine offertaci da un noto politico nostrano, in un Suq berbero. Troppe le aspettative, poche le risorse. Di molte cose gli italiani dovranno fare a meno. Per altrettante buone cause non ci sarà, appostata in bilancio, l’agognata copertura finanziaria. Tra tutte le spese di cui dovremo fare a meno una, però, non ci mancherà. Nessuno la negherà. Si tratta del capitolo di bilancio destinato alla cooperazione internazionale.
A dirla così sembrerebbe pure una bella cosa. Un’azione concreta che sposa lo spirito solidaristico di un Paese che non dimentica gli altri. D’altro canto, si sa, l’Italia è la porta aperta all’accoglienza. Figurarsi se ci si sottrae al piacere di fare del bene elargendo denaro preso dalle pubbliche casse le quali, in quanto a contenuto, non sembra proprio che brillino. Tant’è, ma non importa, come sentenzia un noto spot pubblicitario: per aiutare il prossimo non c’è prezzo, per tutto il resto c’è… Ma, come spesso accade per le questioni del Belpaese, sotto la bandiera delle nobili cause si nasconde la fregatura.
E, nel caso della distribuzione dei fondi all’estero, la cosa ha un retrogusto piuttosto amaro. Mi riferisco al fatto che, nel settembre scorso, grazie alla complicità di un assordante silenzio mediatico, il nostro governo, quello delle “larghe intese” per intenderci, appunto ha inteso omaggiare l’Autorità Nazionale Palestinese con un assegno di 60 milioni di euro. Una vergogna assoluta, oltre che un episodio estremamente inquietante. Intanto, la notizia è divenuta di pubblico dominio solo perché gli “onesti”amministratori palestinesi se ne sono fatti vanto rendendo noto il contenuto dell’accordo con l’Italia.
Ciò che più sconcerta è che il nostro Paese, strozzato, come in una morsa, dalla crisi economica, con una produzione industriale che proprio non c’è la fa a ripartire, con una disoccupazione alle stelle e con un carico fiscale procapite che non ha uguali al mondo, pensa bene di contribuire alla ricchezza nazionale dei palestinesi sui quali peraltro gravano pesanti sospetti, avanzati dalle pur generose e accondiscendenti autorità comunitarie europee, sull’effettivo impiego dei fondi elargiti per lo sviluppo di quell’area geografica. Si tratta di essere accecati da fanatismo ideologico se si ritiene, allo stato odierno, di continuare a foraggiare “ad libitum” un’organizzazione che non pensa affatto di dover dare conto del modo con cui spende i tanti soldi che riceve.
È possibile un tal genere di demenzialità nelle scelte di politica estera? Del resto non è opponibile la solita scusa del “non sapevamo” visto che un altro governo, quello israeliano, ben più affidabile in materia di visibilità e correttezza nella gestione della cosa pubblica, va ripetendo fino alla disperazione che una parte del denaro elargito, quello che non finisce nel labirinto della corruzione dei pubblici funzionari palestinesi, viene dirottato per finanziarie attività terroristiche. Non sarebbe giunto il momento di farla finita con questa generosità del tutto inappropriata?
A ogni disgraziato cittadino italiano a cui venga l’insana idea di attivare una richiesta di finanziamento pubblico o semplicemente di partecipare a gare indette dalla pubblica amministrazione gli viene chiesto di tutto e di più sullo stato patrimoniale della sua impresa, sull’ineccepibilità della sua condotta. Vengono sindacate perfino le frequentazioni personali e familiari in nome della trasparenza nei rapporti con lo Stato. Non ne parliamo dei controlli a cui viene sottoposto e la quantità esorbitante di documentazione che deve produrre per giustificare al centesimo l’impiego di ciò che ha ricevuto.
Tutto in nome del sacrosanto principio del rispetto delle regole che non può, e aggiungo, non deve essere derogato per alcun motivo. Quando, invece, si tratta di soggetti statuali esteri ci si distrae. Si ha un’improvvisa perdita di memoria. Così accade di dare senza mai chiedere che, in cambio, si dimostri l’uso che i beneficiari fanno del nostro denaro. Tutto questo, a persone di ordinario buon senso suona come un affronto all’intelligenza. E ciò è francamente inaccettabile. Tuttavia, se appare quanto meno spiegabile, con il fanatismo ideologico tipico della sinistra italiana, la scelta demenziale di sperperare in tal modo il denaro pubblico, risulta francamente incomprensibile il silenzio della componente di centrodestra presente al governo.
È vero che da un po’ di tempo i cinque ministri del Popolo della Libertà appaiono presi da uno strano senso di ebbrezza, sarà l’altitudine in quota dei palazzi del potere che ottunde molte delle loro capacità razionali, ma vedersi sfilare sotto il naso un check da 60 milioni di euro, una qualche curiosità avrebbe dovuta pure sollecitarla. E invece nulla. A questo punto sorge il sospetto che, sotto le mentite spoglie di un gesto di ordinaria demenza si nasconda dell’altro. È ipotizzabile che l’operazione finanziaria si collochi in quella nota area grigia all’interno della quale i governi si muovono con una certa disinvoltura per perfezionare intese o chiudere accordi i cui contenuti non possono essere divulgati, non fosse altro perché, per la loro indicibilità, non sarebbero compresi dalla pubblica opinione che, per quanto generosa, mantiene attiva una soglia di decenza al di sotto della quale proprio non riesce a scendere.
Avanzo un sospetto, certo che a pensar male si fa peccato però… il più delle volte ci si azzecca. Non è, mi domando, che quel denaro fosse in realtà il controvalore pagato per un servizio reso? E cosa possono aver fatto per noi i palestinesi che si dichiarano poverissimi e che non hanno ancora avviato un’economia nazionale degna di questo nome? Si sa che quando si parla dell’Italia si pensa alla sua manifattura industriale e artigianale, all’enogastronomia e al turismo d’eccellenza; se si parla dell’Arabia Saudita si pensa al petrolio, se si parla della Gran Bretagna si pensa al suo capitalismo finanziario, se parliamo della Nuova Zelanda pensiamo alla canna da zucchero e agli “All Blacks”.
Ma se parliamo dei palestinesi, stanziati tra la West Bank, la Striscia di Gaza, Gerusalemme Est e il territorio israeliano a cosa pensiamo? Personalmente l’unica cosa che mi viene di ricordare è il terrorismo sia interno, sia internazionale. Sull’argomento sono sicuramente preparati. Allora, e la cosa si fa inquietante, non è che per caso ci stanno vendendo sicurezza? Del resto, non ci sarebbe da scandalizzarsi perché il nostro Paese ha dei precedenti in questo ambito. Pochi ricordano la dolorosa vicenda della strage terroristica all’aeroporto di Fiumicino del 17 dicembre 1973 (tra breve celebreremo il quarantennale, nell’indifferenza generale) dove caddero 32 civili innocenti.
Nel dibattito pubblico che seguì a quell’attentato si parlò chiaramente dell’esistenza di un patto segreto, definito dal compianto presidente Cossiga “lodo Moro”, tra il nostro governo e le organizzazioni terroriste palestinesi, in forza del quale l’Italia avrebbe “chiuso un occhio” sulle attività compiute sul proprio suolo contro target stranieri in cambio di una esclusione degli obiettivi sensibili italiani dalla programmazione palestinese dei bersagli da colpire. L’esistenza del patto è stata rievocata di recente da una fonte attendibile. Il 14 maggio 2007, nel corso di una trasmissione telesiva da una emittente privata, il magistrato Rosario Priore faceva esplicito riferimento a un “indicibile” accordo in essere tra governo italiano e organizzazioni terroristiche palestinesi, definite “della resistenza”, di cui avrebbe parlato Aldo Moro in alcune lettere scritte durante la prigionia presso le Brigate Rosse.
Di quel carteggio, che andrebbe riletto con attenzione, è stata realizzata una puntuale ricostruzione dallo storico Miguel Gotor che come storico è molto meglio che come politico. Alla luce di questi precedenti, sommariamente richiamati alla memoria, ma ben altri episodi andrebbero citati, non appare del tutto peregrina l’idea che quella somma consegnata personalmente dall’onorevole Lapo (un nome, un destino) Pistelli alla tesoreria dell’Autorità Nazionale Palestinese, in rappresentanza non del governo italiano ma nella qualità di responsabile esteri del Pd, altro non sia che una rata di un contratto ancora attivo tra le parti in causa. È così che stanno le cose? Continuiamo a pagare per non farci colpire?
È a questo che siamo ridotti nonostante i tantissimi denari che spendiamo per la sicurezza del nostro Paese? È vero che abbiamo parecchi interessi sparsi per il mondo, che potrebbero diventare altrettanti target per i terroristi, a cominciare dai ragazzi del nostro contingente Unifil, impegnato nell’operazione di Peacekeeping “Leonte”, proprio nella zona operativa del Sud del Libano, a ridosso dei confini israeliano e siriano. Per non parlare della presenza in Afghanistan. Mi domando perché l’attento Santoro, il fustigatore degli odierni costumi, il Savoranola contrattualizzato a peso d’oro, non ci monti una bella puntata del suo show televisivo.
O forse è troppo impegnato a preparare le comparsate delle presenze ornamentali nel salotto Berlusconi? Chiedere spiegazioni al ministero degli Esteri sarebbe del tutto inutile. Come rivolgere un’ennesima critica all’operato del ministro Bonino, che proprio di recente si è distinta per un altro colpo a vuoto nella drammatica vicenda dei nostri marò, trattenuti illegittimamente dalle autorità indiane, equivarrebbe a sparare sulla Croce Rossa. La realtà è che, come Paese, siamo messi male, e questi episodi, per quanto appaiano marginali o poco determinanti, servono a comporre un quadro d’insieme dal quale è possibile ricavare la misura esatta del nostro peso specifico all’interno del sistema di relazioni internazionali.
Un peso che oggi è scarso e va gradualmente riducendosi. Sarebbe salutare che la nostra classe politica iniziasse a porsi il problema della ricerca di possibili rimedi, magari anche in modo bipartisan. L’importante è che ci aiutino, questi rimedi, a recuperare credibilità e, con esso, spazio politico all’estero. Sebbene si faccia un gran parlare di economia globale, siamo immersi in un mondo nel quale, per far marciare la produzione nazionale sui mercati esteri, c’è ancora bisogno di uno Stato forte che faccia da apripista e sappia, all’occorrenza, “coprire le ali” all’avanzata delle imprese nostrane nel mondo. A questo serve un governo che sappia farsi ascoltare dalla comunità internazionale.
È di una tipologia di politici e di uomini e donne di Stato più adatta allo scopo che abbiamo bisogno. Non certo d’improbabili commessi viaggiatori ch vanno in cerca, per il mondo, di benevolenza facendosi belli con i nostri portafogli. Se non fossimo come collettività così tanto smemorati, ce lo ricorderemmo il giorno delle elezioni. P.S.: se abbiamo pagato così tanto siamo pure fessi, perché il nostro partner europeo, la Francia, che pure ha “finanziato” l’Autorità Palestinese, ha tirato fuori una somma di 18 milioni di euro. Praticamente meno di un terzo di quanto abbiamo sborsato noi. Ma il presidenta Letta non aveva detto che lui, in fronte, mica porta scritto “Jo Condor”. Ma si è guardato bene allo specchio?
Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 18:41