Giornalismo d’inchiesta o militanza politica?

Il Fatto Quotidiano e Report ripetono come un mantra che quello da loro praticato – in varie circostanze e soprattutto nelle vicende che hanno interessato Vittorio Sgarbi – sarebbe espressione di quel giornalismo d’inchiesta che vanta nobili credenziali in Italia e fuori d’Italia.

In effetti, questo tipo di giornalismo ha dato ottima prova di sé, riuscendo davvero in diverse occasioni a porsi come un indispensabile correttivo del potere e dell’esercizio del potere nei confronti di coloro che vi siano sottoposti.

Basti pensare ai due cronisti del Washington Post che scoprirono lo scandalo del Watergate, che indusse poi Richard Nixon alle dimissioni; o alle ricerche operate da vari giornalisti che, permettendo a Émile Zola di intervenire su L’Aurore di Parigi, illuminarono l’innocenza di Alfred Dreyfus, che altrimenti sarebbe morto in carcere; o, ancora, ad un cronista di giudiziaria di Catania – Enzo Asciolla – che, all’alba degli anni Sessanta, non convincendosi delle modalità con cui era stato condannato all’ergastolo Salvatore Gallo per l’omicidio del fratello Paolo, lo scovò più vivo che mai, permettendo così la liberazione dell’innocente.

Questo per dire delle indubbie benemerenze che l’autentico giornalismo d’inchiesta può vantare, rappresentando a volte la sola strada percorribile quando tutte le altre sembrano chiuse.

Tuttavia, il giornalismo di inchiesta rimane pur sempre giornalismo, in quanto si preoccupa di osservare i limiti che sono propri di tale professione, evitando di sconfinare pericolosamente col sostituirsi agli organi inquirenti dello Stato o di gareggiare con essi pur di trovare una informazione invece di un’altra.

In particolare, il rischio concreto che il giornalismo d’inchiesta corre è quello di diventare altro da sé, vale a dire organo eccentrico di militanza politica ammantato da giornalismo d’inchiesta e perciò in qualche modo legittimato a fare e a disfare ciò che gli aggradi, colpendo gli obiettivi contrari alla visione politica preferita.

Ebbene, quali sarebbero questi limiti invalicabili? Secondo un’elencazione certo non esaustiva il giornalismo d’inchiesta non deve: assumere comportamenti dotati di modalità persecutorie nei confronti della persona al centro dell’attenzione; perdere di vista un comportamento sempre rispettoso delle persone coinvolte, in specie se si tratti di minori; intervistare persone psicologicamente troppo fragili e perciò inclini a dire ciò che ci si aspetti che dicano; porre domande che contengano già la risposta che si attende di ricevere; far finta di non vedere o di non capire oppure non voler cercare informazioni che siano in grado di smentire le proprie ipotesi; trarre informazioni da persone poco attendibili o sospettabili di preconcetti o antipatie verso la persona coinvolta; omettere di verificare, prima di diffonderle, la fondatezza delle informazioni ricevute; fissarsi di aver per forza ragione nel portare avanti le proprie tesi, lasciando spazio invece ad ipotesi diverse o addirittura opposte; formulare giudizi definitivi ed inappellabili sulle persone coinvolte, intimando quasi agli organi competenti di assumere questa o quella decisione a loro carico e senza possibilità di appello.

Da notare che se anche fosse violata una soltanto delle indicazioni sopra citate, ciò basterebbe a mutare la qualità dell’informazione facendola transitare – ormai tralignata – nel pieno dell’agone politico.

La domanda è allora se, nel caso di Vittorio Sgarbi, i giornalisti del Fatto e di Report abbiano sempre rispettato o no le indicazioni sopra accennate e che costituiscono il minimo predicabile per ogni giornalismo d’inchiesta che sia veramente tale.

Ciascuno lo veda da sé. E valuti se ciò che è accaduto sia rimasto nei limiti di un benefico giornalismo d’inchiesta oppure se li abbia travalicati, divenendo a tutti gli effetti militanza politica travestita da giornalismo.

Aggiornato il 21 febbraio 2024 alle ore 09:49