Il caso Ilaria Salis è ben diverso da quello dei Marò

Il commento più improvvido che si è sentito riguardo alla ragazza italiana detenuta in Ungheria e al conseguente impegno del nostro Governo per il rispetto dei suoi diritti riguarda l’accostamento al caso dei Marò arrestati in India per i quali l’attuale presidente del Consiglio si sarebbe preoccupata molto di più.

Tra i due casi esiste una sostanziale differenza: i due Marò erano funzionari dello Stato inviati in missione e per questo motivo con il diritto di essere giudicati dal Paese di appartenenza. Gli accordi governativi prevedono infatti che militari e funzionari responsabili di reati commessi nel territorio del Paese che li ospita, vengano giudicati dalle Autorità del Paese di origine. Per gli Stati ove vige la pena di morte tale clausola è d’obbligo e naturalmente è reciproca, pertanto, non ci si deve stupire se un cittadino, ad esempio del Qatar, che si rende responsabile di un reato in Italia, venga consegnato alla giustizia del proprio Paese.

La previsione nasce da un principio consuetudinario vigente già ai tempi dell’Impero romano (ubi signa ubi ius) e rafforzato durante l’era napoleonica (la loi suit le drapeau). Il Nato Sofa – l’accordo sullo stato delle forze che soggiornano nei Paesi Nato – prevede l’automatismo della giurisdizione di bandiera per i reati commessi in servizio e rilascia ad una richiesta ministeriale il passaggio di giurisdizione per quelli commessi fuori dal servizio. Questa previsione ovviamente non c’è per i cittadini che si recano all’estero per motivi propri, i quali devono essere ben consapevoli dei problemi che possono insorgere violando regole o commettendo reati in sistemi giudiziari differenti da quello italiano, ove talvolta la tutela della sicurezza dei cittadini prevale sulle garanzie di chi si rende responsabile di reati.

In proposito il nostro Paese non può salire in cattedra. Presenta il più alto tasso di affollamento delle carceri dell’Unione europea, 142 per cento, che tradotto significa che per ogni 100 posti vivono oltre 140 detenuti, di fronte ad una media europea molto più bassa. Le conseguenti condizioni di vita dei carcerati sono state oggetto di sanzione da parte dell’organismo anti-tortura del Consiglio d’Europa, il Cpt. Anche la Commissione europea per i diritti dell’uomo (Cedu) è dovuta intervenire nei nostri confronti. In un caso, un cittadino bosniaco detenuto a Rebibbia per furto lamentava che aveva dovuto dividere una cella di 16 metri quadrati con altre cinque persone ognuna delle quali poteva disporre di uno spazio di 2,70 metri quadrati. Rivoltosi alla Corte di Strasburgo per violazione dell’articolo 3 Cedu, proibizione della tortura, questa ha accolto il ricorso e condannato l’Italia al pagamento di una sanzione.

Ora per un mero scopo strumentale cavalcato ad arte ci eleviamo a paladini di quei diritti per i quali il nostro Paese è stato oggetto di plurime procedure di infrazione da parte dell’Europa. Giusto indignarsi per le manette di Ilaria Salis come per il trattamento di molti cittadini italiani detenuti all’estero, ma evitiamo però di dare lezioni agli altri se prima non rimuoviamo nel nostro Paese la spiacevole condizione di “osservati speciali” che ci ha riservato l’Europa in molti ambiti del settore giudiziario.

Aggiornato il 05 febbraio 2024 alle ore 09:36