Natale: il “no” al Mes, le guerre e la Chiesa inascoltata

Mes bocciato. O rinviato, si vedrà. Francamente non è facile capire bene le motivazioni dei “no” al Meccanismo europeo di stabilità. Intanto, i pareri negativi sono ben ripartibili fra maggioranza (che si è divisa) e opposizione (pure). Il fatto è che il Mes sarà approvato prima o poi, anche se l’Italia è l’unico Paese che l’ha bloccato. Un altro fatto è che la (non) approvazione alla Camera è soprattutto servita a uno show che è stato tanto più rumoroso quanto meno erano “forti” i partiti del no, cioè del rinvio. Perché, diciamocelo, sì tratta di rinvio più che di una bocciatura tout court. Ma la vicenda, sia pure di non grande enfasi, è a suo modo esemplare all’interno della cosiddetta logica politica, nel senso che proprio questa logica presiede ai e specialmente ai no. Dividendo i partiti. Da una parte i favorevoli, dall’altra i contrari o gli astenuti, con cambio di voto in corso d’opera. Un po’ come avviene con la stessa festività che segna a fondo l’Occidente e, ovviamente, l’Italia.

Si pensi infatti alla sigla AD (Anno Domini) per significare il dopo che infatti noi viviamo, nonostante siano trascorsi duemila anni e passa. Ma se la sigla sta a significare un inizio nonostante grazie a quel dopo, c’è sempre chi si ferma all’evento inteso non come nascita, ma semplicemente e letteralmente come una sigla qualsiasi, magari per rendere combaciata (absit iniuria verbis) la rima di “cucù’” con Gesù. Chi lo fa, ci hanno riferito, è ovviamente contro la religione cattolico-cristiana in quanto legittimamente non credente, ma questo non può giustificare non tanto quel fondo di miscredenza quanto il significato “storico” di una nascita. Una nascita che va ben oltre quel senso di implicita religiosità soprattutto popolare che la “genialità” dei padri della Chiesa ha reso leggendaria, con l’immissione non soltanto della stalla della nascita, ma della presenza del bue e dell’asinello, a loro volta simboli di un cristianesimo contadino “povero”, cioè del popolo.

Per dire che il “prima” era un periodo (secoli, millenni) come tutti gli altri, “storicizzato” dalle gerarchie del potere. Ma il “dopo” era ed è l’avvento della storia – di tutti e del popolo – nella quale viviamo e operiamo. È anche per questo che la “depositaria” di un evento storico è la Chiesa che, non soltanto, avverte l’impegno universale cui è chiamata dalle origini, ma esalta queste al di là delle festività connesse, rivestendosi di una “missione” proprio come l’evangelica e drammatica vox clamantis in deserto. In un mondo nel quale, non da oggi, sembra diventata una sigla vuota quella dell’Onu, la cui funzione e voce appaiono sempre più distratte, se non assenti. E alzi la mano chi ha sentito in questi anni quelli che si definivano gli autorevoli richiami di un organismo cui sono – o sarebbero – affidate funzioni ben al di là di una burocratica presenza senza alcuna autorevolezza.

Da ciò il senso più vero dei richiami natalizi di una Chiesa che pure sa di non essere più ascoltata, non soltanto dagli stessi fedeli, ma da un universo immerso nella “mondanità” mediatica di questi tempi e di quelli futuri. La voce che grida nel deserto è, anche e soprattutto, nei giorni di Natale una delle pochissime che insiste e insisterà sui cinquantanove conflitti in corso in questo momento, in cui si preferisce inneggiare alla pace, con vocalizzi a uso televisivo, senza chiarirne bene le necessità profonde contro quelle che un apostolo di nome Paolo aveva gridato in Galilea, duemila anni fa, come dominazione e guerra.

Aggiornato il 02 gennaio 2024 alle ore 09:43