Funerali con applauso?

Narrando di Ottaviano Augusto, ne “Le vite dei dodici Cesari”, Svetonio ci dice (immaginificamente) quali furono le sue ultime parole prima di spirare, rivolte alla moglie Livia: “Si omnia bene acta sunt, ludo plausum date”, che vale “se tutto è stato ben condotto, applaudite allo spettacolo”.

La cosa interessa non tanto per ragioni legate alla biografia storica su Augusto, qui dovuta peraltro ad uno storico di non primaria grandezza, quanto perché aiuta a comprendere quale possa essere il senso esistenziale derivante dagli applausi.

L’episodio riportato indica infatti che, chi applaude, lo fa da una prospettiva estranea e comunque diversa da quella in cui opera invece la persona o le persone alle quali l’applauso è destinato. Chi applaude è in qualche modo portato a farlo dalla semplice ma indubitabile circostanza di esser collocato, per dir così, al di fuori dello spettacolo da applaudire, prima e al di sotto del palcoscenico. Egli, in ogni caso, sta fuori dalla scena e sottolinea la sua approvazione proprio attraverso l’applauso, come appunto Augusto intendeva che fosse.

Ecco, fra l’altro, perché riesce difficile comprendere gli scroscianti applausi che hanno accompagnato la conclusione delle esequie dei due piccoli soppressi dal padre, tenutesi due giorni orsono a Gessate, nei pressi di Milano. Moda, questa, inaugurata già da tempo in Italia e ormai divenuta abituale in molti funerali di persone già note o di personaggi venuti all’onore della cronaca. Così, anche in questo caso, purtroppo.

Inoltre, pare che i funerali di questi due poveri bambini siano stati preceduti da una canzone di Vasco Rossi, messa a tutto volume per il luogo in cui si svolgevano – un campo di calcio con mille e più partecipanti; accompagnati da dichiarazioni della madre lette da un’amica; e appunto seguiti da vibranti applausi.

Insomma, i funerali come forma di nuovo happening improvvisata e molto apprezzata non solo da quanti vi partecipano – non escluso il sacerdote celebrante – ma anche da tutti coloro che avrebbero voluto esserci e purtroppo, secondo loro, non sono stati in grado di presenziare. In realtà, uno scempio di incredibile gravità, sia per quello che in esequie di questo genere drammaticamente manca, sia per quello che invece c’è. A mancare in codesti funerali-happening è forse il più prezioso dei beni concessi all’uomo: il “raccoglimento”.

Ma cosa ha ciascuno di noi, propriamente, da raccogliere? Ciò che, da raccogliere, è più difficile: se stesso. Non dico nulla di particolarmente nuovo, affermando che la personalità di ciascuno di noi – sia nella sua dimensione psicologica che in quella affettiva – è sempre nel pericolo di frammentarsi, di disperdersi in mille rivoli a volte sconosciuti, mettendo a rischio non solo l’identità ma anche la consapevolezza della nostra identità. Ecco dunque il “raccoglimento”, vale a dire la capacità concessa a tutti e a ciascuno di noi di mettere insieme i pezzi, i segmenti di tale identità, appunto di “raccoglierli”, rendendo possibile il nostro essere uomini, capaci di dire “io”: se non ci fossimo prima ed originariamente “raccolti”, infatti, neppure potremmo pronunciare questa piccolissima parola: “io”. Ciascuno di noi può dire di sé “io”, proprio in quanto si sia preliminarmente raccolto in se stesso.

Ora, per consentire questa operazione delicata ed insostituibile di raccoglimento del sé, occorre un necessario silenzio, un clima esterno di attesa e di matura consapevolezza di ciò che si sta facendo, altrimenti la frammentazione, propiziata dal rumore e dalla confusione, finirà col prevalere.

Si badi. Non è che si partecipi a un funerale allo scopo di esperire il “raccoglimento”, ma, al contrario, si cerca il “raccoglimento” proprio per poter degnamente partecipare ad un funerale: per pensare davvero il dolore, per tentare di avvertirne almeno parzialmente il peso, per renderlo umanamente sopportabile. Infatti, parteciparvi escludendolo a priori, lasciandosi prendere dalle note a tutto volume di un cantautore alla moda, significa esser presenti col corpo ma assenti – cioè tendenzialmente frammentati – nello spirito, significa insomma una partecipazione non degna.

Meglio sarebbe allora starsene a casa: se ne gioverebbero i parenti dello scomparso, che avrebbero ovviamente desiderato una autentica e degna partecipazione e ne trarrebbe vantaggio anche chi, non essendone capace, preferisca non rischiare di far credere ciò che invece non è.

Ad essere invece presenti in questo tipo di esequie, oggi assai diffuse, sono invece gli applausi. Ma ad applaudire sono per definizione, come visto al principio di queste brevi note, coloro che stanno fuori dalla scena, coloro che non vi partecipano. Nella specie, coloro che hanno presenziato, senza alcun raccoglimento, al funerale happening, cioè coloro che vi hanno soltanto assistito, applaudono alla riuscita dello spettacolo (anche perché non si vede a cosa d’altro possano applaudire): e basta.

Vi pare una cosa sensata? A me, no. Mi pare una assurdità.

In definitiva, ne viene che il momento della celebrazione delle esequie religiose, invece di lasciarsi cogliere come il luogo elettivo della condivisione del dolore – in specie in casi terribili come quello dei due bambini soppressi dal padre – allo scopo di renderlo più tollerabile, attraverso il raccoglimento, il silenzio, la naturale compostezza del tratto e del comportamento, diviene una forma di spettacolarizzazione della morte, ove si applaude alla riuscita dell’organizzazione.

Il senso della morte viene così esorcizzato, reso tendenzialmente estraneo al dolore e alla sofferenza, sacrificati sull’altare dello spettacolo pubblico, oltre il rito religioso, addirittura contro il rito religioso, il quale trova nell’applauso scrosciante dei presenti (ma non partecipanti) il proprio irrituale ed indebito sigillo.

Nessuno tuttavia sembra comprendere che perdere in tal modo il senso della morte, comporta – lo si sappia o no – una conseguenza assai grave. Comporta perdere anche il senso della vita.

Aggiornato il 06 luglio 2020 alle ore 10:57