La riforma non devono farla i magistrati

Un magistrato di valore, ma a distanza siderale dalle mie idee, commentando il mio post (intenzionalmente provocatorio) di ieri sera, ha detto: Luca Palamara non agiva come sostituto procuratore della Repubblica, ma in altra veste.

Eccoci qui. Ci siamo. È proprio questo il punto. La qualifica di magistrato è (stata) la precondizione per fare quello che ha fatto, consapevole com’era che lo strumento giudiziario offre opportunità che, lasciatemelo dire, la politica neanche si sogna.

È proprio questo il nodo da sciogliere. Da un punto di partenza apparentemente neutro, il dibattito culturale “interno”, siamo arrivati qui, al condizionamento del sistema.

Se Palamara fosse stato il presidente dell’associazione dei dirigenti ministeriali, non avrebbe potuto fare nulla di ciò che ha fatto e nessuno si sarebbe affaticato per essergli gradito. Invece Palamara gestiva, non da solo!, gli incarichi più importanti del Paese. Altro che dibattito culturale…

Provate, almeno per una volta, a mettervi nei panni di chi vi osserva: non vi pare che sia legittimo il sospetto che le lotte per quegli incarichi (quello che leggiamo, senza inventarci nulla) siano finalizzate ad acquisire posizioni di forza dalle quali esercitare il potere di condizionamento della politica e non solo? Oppure, devo ricordare quella volta in cui, barba lunga e reti televisive schierate, tre sostituti (sostituti, non ministri) piegarono il Governo, costringendolo ad abbandonare un decreto?

Chi ascolterebbe Piercamillo Davigo, se non fosse un magistrato, quando sferra colpi alla politica e critica le leggi per la loro inadeguatezza sanzionatoria? Ora, leggo sulle riviste delle correnti, si apre la stagione del revisionismo critico, come se il problema, quello vero, fosse quello delle correnti e dei Palamara di turno. Mi spiace, non è così: gli uomini perseguono obiettivi concreti e, il potere della giurisdizione, le pouvoir nul di Robespierre, è il più micidiale tra tutti i poteri.

La riprova? Perché, se non fosse così, battersi tanto per “piazzare” qualcuno nelle procure di Perugia e Brescia? Dai seggi di Roma e Milano si controllano il mondo politico ed economico; da Perugia e Brescia si fa in modo che l’ordine interno sia preservato. Per dirla come va detta, il sistema è “blindato”.

Il pluralismo culturale è un bene prezioso. Le correnti, molto meglio di una classe politica inetta, ne hanno fatto uno strumento di esercizio della giurisdizione e di pressione politica.

“Quel tizio ha ragione ma va attaccato”, è uso distorto del potere giudiziario, non un punto di vista culturale. Migliaia di magistrati – come quello al quale rispondo – non fanno così: lavorano in silenzio e con impegno. Non contano nulla, però. Non fanno carriera. Non arrivano ai vertici o al Csm.

Ora, vorrebbero autoriformarsi. Mi spiace. Questa volta, se avessimo un ministro e non un personaggio in cerca d’autore, la riforma dovrebbe essere fatta dall’esterno, da altri. E dovrebbe riguardare questi problemi, non le correnti. Questa volta, insomma, la riforma non devono farla i magistrati. Abbiamo già dato, grazie.

Aggiornato il 24 giugno 2020 alle ore 12:42