I guai di Zingaretti cominciano con l’M5S e non solo

Va pur detto e ricordato che, a parte le imprevedibili decisioni estive di Matteo Salvini, il leader della Lega possedeva nella sua auto (politica) da Capitano un buon sistema di controllo in corsa, a pedali e pure a mano, innanzitutto nei confronti dell’allora amico Luigi Di Maio. Et pour cause, nel senso e nella misura in cui aveva ben presto compreso come e qualmente le pressioni programmatiche e gli slanci provocatori dei pentastellati, per di più sotto l’occhio vigile di un capo supremo ridicolmente dimentico delle leggi immutabili del potere governativo testé acquisito, potevano e dovevano essere contenuti e, possibilmente, resi inattivi. Lo dimostrano, se mai ce ne fosse bisogno, le impennate successive con la compagnia di un Nicola Zingaretti (al governo dopo lo spintone decisivo renziano), la cui punta più alta e più tragica sta nella vicenda dell’Ilva. Vicenda emblematica come ha sottolineato il nostro direttore e, al tempo stesso, rivelatrice di un sottofondo nel quale non si sa bene se la fortuna o la previsione salviniana l’ha salvato dalla brutta figura anche internazionale che stanno facendo Luigi Di Maio e Nicola Zingaretti, mentre il povero Giuseppe Conte non sa che pesci pigliare.

Il punto d’osservazione non può dunque che trovare la conferma di ciò che si dice da più parti a proposito di Zingaretti e della sua acquiescenza nei confronti di un alleato di governo del quale, comunque, il segretario diessino conosceva benissimo le pulsioni divaricanti spacciate per il nuovo che avanza(va), ma contro le quali non solo non tentò di imporre qualche freno ma si mostrò sempre sorridente con un sì tradotto poi in esecuzioni governative.

Né poteva lo stesso Zingaretti ignorare la presenza attiva nella questione tarantina di un governatore come Michele Emiliano infatuato di un risultato di quel referendum (poco votato, in verità) che sanciva come vox populi le stesse se non maggiori pulsioni di quel giustizialismo ecologista a sua volta sbandierato come una vera e propria svolta ideologico-culturale i cui frutti nefasti si stanno raccogliendo, magari sognando un’area industriale produttiva e occupazione trasformata in giardini pubblici, come predicava il capocomico. La nemesi, si potrebbe anche dire, se non fosse che la loro distruttività giammai frenata nelle sedi opportune e da chi ne aveva il potere se non il dovere di farlo, è riapparsa nella penosa facitura di una Legge di Bilancio nella cui narrazione si confermano, fra stop and go, cambi di tasse, andirivieni anche umoristici, l’incredibile incapacità di gestione del governo della quarta potenza mondiale. Esemplare il caso della tassa sulla plastica senza che allo Zingaretti non fosse neanche passata per l’anticamera del cervello una consultazione col suo (ancora per poco) presidente dell’Emilia-Romagna, la regione maggiore produttrice al mondo degli imballaggi in plastica. E via elencando.

Domandarsi la differenza sostanziale fra un Salvini e uno Zingaretti significa anche e soprattutto mettere in rilievo non tanto o non soltanto l’attenzione salviniana alle vicende e faccende della Polis day-by-day, accesa e resa vigile da un gruppo ampio di addetti alla comunicazione e all’immagine, ma il tipo di offerta politica e culturale di entrambi. In questa offerta il portato della Lega si struttura in un movimento dotato di una ben precisa identità, di una forza tanto corrispondente al richiamo di militanti e votanti quanto orgogliosa (certe volte anche troppo) delle proprie virtù al servizio delle battaglie più varie, dalle regioni all’intero Paese nel cui “credo” sta una reciprocità addirittura fisica giacché il motus salviniano privilegia un contatto umano, dagli abbracci ai selfie, alle cantate in gruppo, ai comizi applauditi. Si può essere o meno d’accordo col salvinismo, ma non gli si può comunque negare una forte capacità stimoli aggreganti che si innervano e si propongono come una politica senza se e senza ma.

Il rovescio o quasi di questa linea robusta sta nelle debolezze zingarettiane che non sono di tipo né caratteriale né temporaneo, ma attengono allo spegnimento progressivo di un’identità, di una forza autonoma, di un movimento che ne ha visto e fatto bensì di tutti i colori ma, anche per questo vizio storico, ha smarrito il senso e il significato di quell’ubi consistam in grado di garantire e creare scelte di fondo, decisioni, acquiescenze negate, proposte sicure in vista di traguardi nuovi, che smuovano, o meglio entusiasmino compagni e votanti. E accusare un Renzi, e pure Di Maio dei colpi contro questa maggioranza pare come la conferma della mancanza di stabilità zingarettiana.

Aggiornato il 08 novembre 2019 alle ore 10:42