Bellomo e le regole di un Paese alla frutta

Parliamo tanto di Francesco Bellomo - e del suo arresto intervenuto a distanza siderale dai fatti in contestazione - e non ci soffermiamo a riflettere sulle ragioni che possono avere indotto molte persone a sottoscrivere il suo eccentrico codice comportamentale: giovani intelligenti (in genere), preparati, determinati e con le idee chiare sulle scelte da compiere per il futuro; giovani disposti ad assoggettarsi a regole strampalate e vessatorie pur di essere ammessi ad un corso di indubbia qualità che avrebbe aperto loro le porte di una professione di grande prestigio sociale.

Non vorrei esagerare, ma mi pare non si tratti di poveri disperati, i quali, pur di ottenere un lavoro, cadono tra le braccia del truffatore di turno o dell’organizzazione schiavista. Niente di tutto questo. Le vittime - ammesso che di vittime si possa davvero parlare - sono giovani laureati, mediamente di buona famiglia (si dice così, no?), non degli spiantati alla canna del gas. Non confondiamoli, per favore, con coloro che sono costretti a fare di necessità virtù. Potevano rifiutare. Potevano cercarsi altri docenti. La borsa di studio non spiega tutto. Non del tutto, almeno.

Non conosco l’animo umano e, quindi, non sono in grado di fare un’analisi seria ed approfondita del fenomeno. Mi limito, quindi, a rispondere con luoghi comuni. Il primo è il fine giustifica i mezzi: pur di superare il concorso, acconsento a tutto. Il secondo: le cose, qui, funzionano in questo modo. Il terzo: è solo una parentesi, superata la quale tornerò ad essere quello che sono sempre stato/a e farò come mi pare. Sono le regole auree del nostro Paese. Quelle che, guarda caso, applicavano anche i magistrati in carriera coinvolti nel noto scandalo di cui non sappiamo ancora tutto.

Le regole di un Paese alla frutta. Anche la morale delle mie parole sta in un luogo comune: il pesce puzza dalla testa. La classe dei duri e puri è uguale a tutte le altre. Fine dei giochi.

Aggiornato il 11 luglio 2019 alle ore 11:03