La giustizia è un disastro:  aiuto, la vogliono riformare!

Finalmente stampa, politici e politologhi hanno cominciato ad ammettere che la giustizia è uno scandalo, non solo per i risultati, per come funziona, ma per quello che è e, magari, (ma questo sono ancora in pochi a capirlo) per quello che vuole essere.

Finora tra ministri, parlamentari, presidente della Repubblica, prevaleva la convinzione (o il far finta della convinzione) che il comportamento corretto della politica nei confronti della giustizia e della Magistratura fosse quello di “apprezzare” l’importanza del loro ruolo, rispettare ciecamente l’indipendenza, non vedere le malefatte, provvedere a tutte le esigenze di modifiche dalla legislazione che la Magistratura riteneva necessarie per esercitare meglio le sue funzioni, ma, di fatto, soprattutto per superare i confini, sostituendosi agli altri poteri dello Stato ed imponendo ad essi di rimanere soggiogati e sopraffatti.

Nessuno osava rilevare che “difetto è nel manico”, che errori e malefatte non erano, non sono tanto quelli dei singoli a doverci preoccupare, ma che è il “sistema giustizia” ad essere deviato e corrotto. Per anni e anni una parte rilevante e organizzata della Magistratura ha predicato, teorizzato e, giorno per giorno, sempre più gravemente realizzato un “uso alternativo della giustizia”. Cioè una giustizia che non si propone di essere “giusta”, ma che si ponga l’obiettivo di “cambiare le cose”. Cambiare l’assetto sociale (almeno così dicevano prima che evaporasse il marxismo), cambiare la sostanza delle leggi nella loro applicazione, etc. etc.. E se questo lo predicava (e lo predica) una parte della Magistratura, l’altra parte lo pratica senza predicarlo.

Funzione giudiziaria, dunque, concepita dalla Magistratura italiana come attività preminentemente politica. Che mira ad un risultato ultimo della imposizione del potere giudiziario su ogni altro. Compreso quello legislativo. Del resto le prediche dei Davigo, dei Gratteri, dei Di Pietro, di un Ingroia (quando è lucido), sono una tipica attività di partito. E una tipica attività di partito è il dividersi e contrapporsi in “correnti”.

Per anni sono partiti dalle Procure lampi e tuoni contro la corruzione della politica, con invocazioni di mezzi legislativi che conferissero ai magistrati, di fatto, un potere discrezionale di punire tutto ciò che nell’Amministrazione “non va”. Finalità di lotta, quindi, non di obiettiva giustizia.

Le prediche dei Davigo, dei Gratteri, dei Di Matteo, dei Caselli, il fantasma della mafia agitato ogni volta che qualche ostacolo si profilava per questi paladini dell’abuso, la complicità di una stampa di pennivendoli tirapiedi, si concretavano e si concretano nella giustizia distruttiva di ogni “sospettato”. Questa la devianza della giustizia.

Diverso il coinvolgimento personale dei singoli magistrati in questo disegno criminale. Ma assai scarsa una totale estraneità e ancor più rara una ferma opposizione. Questo “Partito dei Magistrati” ha trovato spazio e facile vita per la stoltezza e la volontà di “non compromettersi” di un po’ tutte le forze politiche. Ma negli ultimi anni, dopo che questo tipo di giustizia era stata sostenuta dalla Sinistra e dal Partito Comunista Italiano si è profilato un legame, una simbiosi tra il Partito dei Magistrati ed il clan dei Casale(gge)si, il cosiddetto Movimento 5 Stelle. Il populismo sciocco ed abbietto ha predicato e preteso di realizzare (per gli altri) un sistema per il quale si entra in politica navigando su internet e se ne esce con un avviso di garanzia, quale che sia il livello raggiunto (anzi, tanto più facilmente tanto più esso sia alto).

All’Italia che affoga nella corruzione dei politici, la sferza dei “puri” togati e dei loro tirapiedi a Cinque Stelle. Quanto è accaduto e sta accadendo non è una novità. È la logica evoluzione di una Magistratura politicizzata nel segno della proprio onnipotenza e divisa in correnti eredi di ideologie agitate a vuoto e ridotte a conati per il raggiungimento di posti in carriera. Etichette per il mercanteggiamento per il “tu mi dai questa carica a me, io ti do quell’altra a te”. Merce di scambio. Ma al commercio dello scambio della merce fa sempre seguito quello che si vale della moneta.

Il caso Palamara non è affatto un “caso”, né tanto meno il “caso Palamara”. È lo sbocco del sistema giudiziario trasformato in partito, proteso al potere, il nodo che arriva al pettine. Situazione gravissima per tutto l’impianto istituzionale. Ma aleggia un pericolo maggiore. Pare che il Governo, questo pseudo-governo, questa gabbia di polli che si azzuffano, questa accademia di menti del livello di Danilo Toninelli, vuole mettere mano niente meno che alla riforma della giustizia.

Aiuto! Il peggio, dicono, viene sempre dopo. Potrebbe venire però prima di nuove elezioni che mandino a quel paese questi nostri tirapiedi dei magistrati. C’è da disperarsi. E c’è da sperare che questi qui lascino le cose nella cacca in cui sono.

P.S.: Esponenti dell’Associazione Magistrati hanno parlato e parlano di una “questione morale”. Questione morale tra i magistrati è di per sé questione politico-istituzionale. E quella del nostro sistema giudiziario è questione politica fondamentale. Si tratta di vedere se ad una Repubblica Democratica si sia stabilmente sostituita una Repubblica di abusatori della giustizia.

Aggiornato il 18 giugno 2019 alle ore 10:33