La casta non c’è più?

Un mese fa circa si gettavano le basi di questo governo. Luigi Di Maio e Matteo Salvini non hanno, allora per oggi e per domani, stipulato quello che si è sempre chiamato in faccende del genere un “programma di governo” ma né più né meno che un “contratto”. Forse, o senza forse, memori del “contrat social” di Jean-Jacques Rousseau al quale, peraltro, il Movimento 5 Stelle, ovverosia Davide Casaleggio e Beppe Grillo, ha intitolato la cosiddetta “piattaforma” che a detta di molti tutto vede e a tutto provvede, cioè dirige.

Era o voleva essere una reazione netta e irreversibile contro la mitica “casta”, cioè quei partiti più o meno storici che, alleandosi fra loro, hanno governato il Paese dal dopoguerra (da Alcide De Gasperi a Silvio Berlusconi, per dire) sia pure fra alti e bassi, ma sempre e comunque nella e per la democrazia, e il progresso, ça va sans dire. Si è detto Silvio Berlusconi che, tuttavia, non fa parte di questo governo e che, allorquando mise all’opera una maggioranza anche e soprattutto con la Lega Nord di Umberto Bossi, non pochi osservarono che con i leghisti al governo arrivavano i barbari con, per di più, uno di loro di nome Roberto Maroni al ministero degli Interni. Adesso, in quel delicato dicastero, troviamo un altro leghista come Salvini con in più l’impegno di vice presidente del Consiglio dei ministri. E i barbari? E, soprattutto, la leggendaria e bistrattata casta ci sono ancora? Che fine hanno fatto? Ma, si dirà, la Lega salviniana è la colonna portante del centrodestra in alleanza con una Forza Italia sempre più debole ma pur sempre berlusconiana e collabora in un governo con un “vice” pentastellato come Luigi Di Maio, che è il simbolo, insieme a Grillo, di un movimento nato e cresciuto con un solo e vero obiettivo: opporsi alla casta, denunciarne i disastri, distruggerla all’urlo di: tutti ladri, tutti a casa!

E adesso? Adesso c’è il governo di cui sopra, con tanto di contratto più o meno sociale e comunque politico, confermandosi né più né meno che come un’alleanza di potere come tutte le altre finite nelle reprimende anticastali, con gli slogan tanto più popolarizzati via Twitter quanto meno consapevoli di quel minimo di (auto)critica alla nuova realtà governativa la cui novità è, allo stato, nominale, fatta di buoni propositi e belle promesse, mentre la sostanza è quella di prima e di sempre, cioè della casta. Appunto.

C’è stata una campagna elettorale amministrativa dai risultati più variegati nei quali, comunque, predomina la figura di un Salvini, dai veneti soprannominato “faso tuto mi!” e che si tiene ben stretta, diversamente che al governo, l’alleanza con il partito berlusconiano del quale, purtroppo, sono fin troppo evidenti gli arretramenti, le smagliature, le carenze vistose di un gruppo dirigente degno di questo nome e, quel che è peggio, la svogliatezza se non il disinteresse per una sostanziale e non più rinviabile ripresa politico-amministrativa con scelte appropriate. Sullo sfondo di una situazione che vede sempre in primo o primissimo piano quel duo di Palazzo Chigi che primeggia in presenze costanti, ripetute e messaggistiche in una sorta di gara quotidiana di visibilità dalla quale sono scomparsi o quasi, un Partito Democratico all’opposizione ma anche una Forza Italia che resta sempre e comunque legata alla Lega in un’alleanza per dir così atipica della quale si annunciano ai quattro venti i clamorosi successi che, basta una scorsa ai risultati, appartengono in tutto o quasi alla Lega a trazione salviniana.

Il movimento di Berlusconi rischia una sorta di autoliquidazione insieme a un Paese che necessita del liberalismo come dell’aria che respira. L’Italia del confronto, del civismo e non della lotta sguaiata, del diritto alla conoscenza, della tolleranza, della promozione sociale e politica sui fondamenti di quel metodo liberale, né da rinviare né da rinunciare, ma, semmai da fare vivere e prosperare in un Paese che ne ha sempre più bisogno.

Aggiornato il 27 giugno 2018 alle ore 12:50