Pd: il traffico di errori, e altro

C’è traffico e traffico, come si dice a Milano, e non solo. Se poi siamo all’ora di punta e per di più piove è un disastro. Ma adesso, col neo traffico delle influenze entrato di prepotenza nei media come neologismo inventato dalla politica e presto - anzi subito, anzi ancora prima, dalla magistratura - la parola assume un che di lugubre, di burocratico, di tribunalizio; insomma, di pubblici ministeri letteralmente scatenati. Perché è il loro traffico preferito, oltre che dai soliti addetti alla cosa pubblica. Il reato è quanto mai vago, indefinibile, quasi impalpabile (a parte le bustarelle che evoca), con un che di voluttuosamente insinuante, talché si può anche esclamare (come il mitico “Gattopardo”): “Dio ce ne scampi e liberi!”.

Ma c’è un però, anzi, un perché col punto interrogativo. Riguarda uno dei tanti interrogativi, forse il più lieve ma al tempo stesso il più emblematico, della domanda che fuoriesce da non pochi osservatori disincantati delle vicende politico-familiari renziane e del Partito Democratico: com’è stato possibile, che l’ultimo e il più organico dei partiti sopravvissuti a “Mani pulite” (di cui proprio quel partito cavalcò l’onda contro gli altri) potesse accettare, se non addirittura promuovere fra i reati punibili, il traffico delle influenze? Bastava pensarci un minuto, non di più, per capire che un reato del genere serve essenzialmente ad “abbassare la soglia della pena e aumentare la discrezionalità dei magistrati” (Frank Crimi) anche e soprattutto perché l’accusa è arduamente dimostrabile ma, contestualmente, non è affatto facile da difendersi e serve, soprattutto, a rovinare la reputazione non soltanto degli eventuali indagati, ma di chiunque altro vi si sia messo casualmente in contatto. E siccome è la politica (tramite il legislatore) che ha introdotto tale reato, è del tutto evidente che questa politica di errore in errore è destinata a dissolversi in non si sa bene cosa.

Il Pd è dunque dentro fino al collo ben oltre il traffico delle influenze, nel traffico degli errori che compie da ben venticinque anni quando si illuse che la liquidazione per via giudiziaria di un quarantennio di vita civile, democratica e di benessere garantita dai partiti di governo, lo potesse salvare non tanto o soltanto dalle sue patenti di corresponsabilità nella corruzione politica, ma dalla sua storia che nemmeno il crollo devastante del comunismo aveva sollecitato in lui un pentimento vero, una presa di coscienza responsabile, una richiesta di scuse, per esempio, ai socialisti democratici; tant’è vero che nemmeno riuscirono a cambiare il nome Partito Comunista Italiano prima del crollo catastrofico del comunismo mondiale, ma dopo. Questo errore di proporzioni gigantesche fu alla bell’e meglio scavalcato cavalcando “l’inchiesta del secolo”, ottenendo in contropartita il salvataggio giudiziario abilmente mascherato con la mai avvenuta e ricercata riabilitazione della storia. E i fatti parlano da soli. Parlano con quel linguaggio ambiguo e sinistro della vendetta verso chi ha distrutto gli avversari screditandoli, infamandoli e buttando loro monetine privilegiando la politica del sospetto, e che ora si vedono ripagati dalla stessa moneta, e con gli interessi.

C’è da gioirne? Per carità! Anche perché la tipologia di quel reato rientra pienamente nell’azzeccata definizione del nostro direttore quando, ragionando di Matteo Renzi nel mirino tramite il padre Tiziano, parla di “spoils system alla paesana”, che non è anch’esso un reato, ma la dice lunga su pasticci derivati. Le sistematicamente mancate riforme della giustizia (anche da Silvio Berlusconi quando poteva e doveva, beninteso) pesano come un macigno su questo Pd e non soltanto su Renzi, vittima questo di un assalto mediatico giudiziario di ben nota provenienza, e quello, il Pd, di una scissione che non si capisce bene se frutto di un cupio dissolvi o di una voluttà suicida. Intanto l’urlo anticasta sovrasta fatti e misfatti, comprese le vere colpe originarie giacché è più facile “accusare i parlamentari pagati coi nostri soldi” omettendo tanti altri soggetti e caste, dai burocrati onnipotenti agli stessi giudici, sempre pagati con le tasse, cioè i soldi di tutti.

Eppure, il vero problema non è questo. Sta nella considerazione che a un quarto di secolo da “Tangentopoli” il quadro nazionale, la situazione, è ancora più grave e incredibilmente ripetitiva nella misura nella quale la politica (a parte l’incombente non-politica grillina) teme la magistratura e invece di tentare di riequilibrarla, di renderle la sua dignità e sovranità, fa se possibile ancora di peggio, offrendo su un piatto d’argento inimmaginabili, nuovissimi reati che, lungi da creare un equilibro sempre più in bilico, faciliterà il salto finale per mangiarsela una volta per tutte. Chi è causa del suo mal...

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 22:56