Nulla è più ingannevole di un fatto ovvio

Su catastrofi e catastrofisti, di governo, di opposizione con seguito di addetti ai mass media, ha ben messo l’accento il nostro direttore. Ma, come si dice, non tutto il male - e che male! - viene per nuocere. Infatti, non occorre essere geni della politica estera per notare come il risultato del referendum (consultivo!) Brexit abbia prodotto non soltanto terremoti politico-economici ma anche e soprattutto una sorta di frenata alle posizioni più radicaleggianti, fra cui la vistosa marcia indietro dell’allora euroscettico Beppe Grillo (del non meno furbacchione portavoce del Movimento 5 Stelle Luigi Di Maio ne parleremo alla fine) che col suo compare Nigel Farage diceva, fino a ieri, peste e corna della delenda Ue in mano a poteri forti e un tantinello criminali insieme a banche spogliatrici e massonerie vari.

Un colpo di freni che si è spostato sia sulle quasi contestuali elezioni iberiche sia sui sondaggi nella gara per la White House fra Hillary Clinton e Donald Trump. La Brexit, si diceva prima del botto, avrà comunque un effetto domino, e così sta succedendo. Ma non soltanto negativamente. Intendiamoci, i danni sono appena iniziati e la nuova troika italo-franco- tedesca sarà sempre meno sorridente ad ogni incontro, soprattutto perché i tempi della risposta europea al grande sconfitto David Cameron saranno comunque lunghi, a dispetto della volontà di Jean-Claude Juncker in evidenti difficoltà. Tempi lunghi anche per la crisi profonda dei due partiti maggiori britannici destinati a diverse leadership, delle quali la maggior colpevole del disastro sembrerebbe quella di Cameron, proprio in quanto Premier. Ma anche le colpe del laburista Jeremy Corbyn non sono da meno, facendo giganteggiare la figura di Tony Blair. Corbyn ha condotto una campagna referendaria sotto il segno dell’accidia, dell’indifferenza e dell’indolenza: viste in tv le sue svogliate performance, sembravano il format di come non si deve fare una campagna elettorale. Ha lasciato spazio a quella parte del “Labour” nemica acerrima della Ue contro cui è stato usato un linguaggio il cui populismo ha fatto a gara in demagogia con quello dei conservatori nemici di Cameron, e trovando ovviamente in Farage il vincitore indiscusso della corsa al botto finale.

Ciò che ha stupito tutti noi e probabilmente gli stessi inglesi è stata proprio la sottovalutazione, se non l’assenza, nello sviluppo della battaglia referendaria, del principio cardine della politica governante, che consiste nel prevedere di che tipo possa essere la conseguenza di una scelta di chi governa. Vuoi perché l’indizione del referendum da parte di Cameron doveva servire ad eliminare il macchiettistico avversario interno Boris Johnson, vuoi, soprattutto, perché la vittoria del “remain” gli pareva del tutto scontata, addirittura ovvia, dimenticando così la massima della più famosa creatura di Arthur Conan Doyle secondo cui “nulla è più ingannevole di un fatto ovvio”. Siccome bisogna guardare al bicchiere mezzo vuoto e mezzo pieno, conviene allargare ottimisticamente lo sguardo alla Spagna dove, insieme alla vittoria della nostra nazionale (da podemos a godemos, copiando la rosea “Gazzetta”), si è notata l’ottima tenuta del partito di Mariano Rajoy che potrà mettere in piedi un governo, magari con l’astensione di un Partito Socialista Operaio Spagnolo (Psoe) smagrito ma non troppo, mentre l’irresistibile avanzata di Podemos e Sinistra Unita è stata bloccata. In entrambi i casi è facile scorgere l’effetto indiretto ma palpabile della paura che la Brexit ha provocato nell’elettorato spagnolo, segnalando che la radicalizzazione delle posizioni produce quasi sempre risultati opposti a quelli prefissati. Così dicasi per il balzo all’insù nei sondaggi per Hillary Clinton rispetto a Donald Trump, percepito, quest’ultimo, come la copia o l’imitazione dell’ex sindaco londinese, connotata da un estremismo - per ora soltanto a parole, ma domani chissà - e di certo molto meno tranquillizzante dell’indubbio mestiere e della professionalità, di cui ha dato prova la già First Lady.

Un appunto finale sulla domenicale presenza televisiva di Di Maio, anche lui, come il suo “capo”, in piena retromarcia sulla Ue “nella quale noi Cinque Stelle abbiamo sempre detto di voler restare”. Ma quando mai… Va bene, in politica il cambiare idea non è sempre un reato come invece sembrano, o sembravano, pensare e dire i pentastellati; ma il problema è un altro. E riguarda quell’altra affermazione di Luigi Di Maio che, da Lucia Annunziata, ha proposto un referendum nientepopodimeno che sull’Euro. Impossibile e inammissibile, per fortuna nostra, ma nessuno lo ha spiegato a Di Maio. Non occorre essere laureati alla Bocconi per sapere che dall’ipotetica bocciatura della moneta europea deriverebbe all’Italia, con matematica certezza, un’inflazione fra il trenta e il cinquanta per cento. Oltre che una sottospecie di moneta (la lira? il tallero?) ridotta a carta straccia.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 22:58