“Ora basta!”, intervista a Roberto Rossi (Aleandri Spa)

Roberto Giuseppe Rossi, laureato al Politecnico di Milano in Ingegneria dei Trasporti, è oggi l’amministratore delegato della Aleandri Spa, una delle più importanti realtà del Sud (Bari) nelle opere pubbliche. Anche lui – responsabile dei circa 168 dipendenti che lavorano nell’azienda che dirige e delle migliaia dell’indotto delle opere pubbliche che vengono fatte – ha firmato lappello “Ora basta!” per sbloccare le opere pubbliche in Italia incagliate tra la cultura del sospetto, il Codice degli appalti e l’estensione inverosimile della responsabilità erariale per i pubblici dipendenti che porta gli stessi a evitare di firmare le aggiudicazioni delle gare per ogni minimo vizio formale.

Cos’è che non va in questo Codice degli appalti? Perché non partono i cantieri?

La media per passare dall’appalto al cantiere è di un anno e mezzo due. Basterebbe questo. Poi da quando parte l’idea dell’appalto alla realizzazione finale anche dieci anni…

Quanto influisce la cultura del sospetto e l’ossessione per la possibile corruzione?

Purtroppo tantissimo. Siamo a livelli parossistici. I dirigenti delle amministrazioni pubbliche hanno paura anche della loro ombra. Poi c’è il panico per le possibili richieste di danno all’Erario.

E allora?

La percezione è che dell’opera finita non interessi nessuno. Come a dire che una strada, un collegamento tra due città, un ponte, non siano vissuti come esigenze primarie. È importante aggiudicare l’appalto, poi succeda quel che succeda.

E quanto c’entra la politica degli annunci e della propaganda in questo?

Non mi sbilancio, ma certo ha molte responsabilità. L’importante è poter andare in televisione e dire che è stato aperto un determinato cantiere… poi quando chiuderà è un altro discorso. Chi se lo ricorda più fra dieci anni?

E allora i dirigenti pubblici di cosa si occupano?

Di stare in regola con le pretese burocratiche e di prevenire azioni risarcitorie o denunce davanti alla Corte dei conti. Questo non significa ovviamente che non si debbano seguire le regole, ma il fatto è che sono a dir poco eccessive… e questo Codice, che quando è nato è stato presentato come una norma che doveva snellire gli iter burocratici, in realtà ha appesantito tutto.

Di buone intenzioni sono lastricate le strade incompiute si potrebbe dire?

Le commissioni non erano pronte, i progetti esecutivi nemmeno, le linee guida sono state tirate fuori alla spicciolata e ne manca almeno un altro 40 per cento. Così non si può andare avanti onestamente. E il tutto ha un’enorme ricaduta sulla disoccupazione del settore che ha perso 600 o 700mila posti di lavoro negli ultimi otto anni.

Ma queste nuove regole almeno sono state comunicate bene agli addetti ai lavori?

Ovviamente no, l’incertezza è imperante. Nessuno sa veramente come si debba procedere e quel che si possa o meno fare. Oggi gli imprenditori si trovano in difficoltà non perché richiedono di superare le norme, ma semplicemente perché non se ne producono di chiare.

Colpa di un legislatore che fa le leggi con la cultura del sospetto?

Non c’è dubbio, si vive in un clima del non fare. E poi manca la certezza del diritto. Se un imprenditore sbaglia qualcosa anche il giudizio amministrativo dovrebbe essere rapido, altrimenti i cantieri restano abbandonati per anni.

Lei sostiene che l’interesse sociale dell’opera passa in secondo piano?

Guardi, venga a vedere al Sud come ci hanno abbandonato. Qui da noi si capisce meglio cosa è in ballo. Non si fanno le infrastrutture e non decolla l’economia. Ci hanno abbandonato a noi stessi.

Perché un’opera pubblica, di quelle che non si terminano mai, il disagio sociale lo crea eccome?

Sicuro, basta guardare cosa sta succedendo a Genova, che poi sta al Nord. Da noi è tutto in stato di abbandono proprio per questa mentalità. Ripeto, l’interesse sociale passa in secondo piano, si è capito anche con l’Alta velocità.

Lei pensa che questa situazione sia una conseguenza della criminalizzazione del settore nata più o meno con “Mani pulite”?

“Forse, ma il problema è che da questa crisi sembra impossibile uscirne. I fallimenti sono a cascata e anche quando c’è un’emergenza, come a Genova o con il terremoto, non si sa da dove sbrogliare la matassa. Salvo il fatto che si decide subito di nominare un commissario per derogare alle leggi vigenti…

E perché?

Evidentemente perché in casi di emergenza non funzionano affatto, ma anche nella ordinaria amministrazione questi codici hanno mostrato la corda. Ora il buon senso direbbe che se una cosa non va, si cambia. Ma in questo la politica non sembra avere interesse di accelerare.

Come mai?

Risolvere i problemi della collettività non porta voti, mentre evitare le grane personali del politico o del partito al limite un minimo di ritorno elettorale finisce per averlo; se non si guadagna consenso almeno non si perde, ma con questa mentalità non si va da nessuna parte.

Aggiornato il 18 febbraio 2019 alle ore 13:00