Dalla Basilicata fino ad Harvard

Se l’innovazione in America è da sempre sinonimo di Silicon Valley, recentemente Harvard ha superato la mitica area californiana nel settore del biotech: inoltre, grazie a un nuovo enorme campus dedicato al mondo dell’imprenditorialità che farà concorrenza a quello del MIT, la zona di Boston/Cambridge probabilmente diverrà il principale polo di attrazione di investimenti di tutti gli Stati Uniti.

E’ qui che opera Gianluca De Novi: un giovane italiano partito da Bernalda, un piccolo paesino della Basilicata, che costituisce un altro eccellente esempio di quei giovani italiani di successo in America che incontriamo sempre con grande piacere e interesse, nella speranza di poter contribuire, raccontando le loro storie, a promuovere sempre di più l’incontro tra Italia e Stati Uniti.

Gianluca, presso la Harvard Medical School e il Massachusetts General Hospital di Boston ti occupi di ricerca e insegnamento nei settori della simulazione chirurgica e chirurgia robotica. Aiuta noi non addetti ai lavori a capire meglio cosa fai …

La simulazione chirurgica serve essenzialmente a due cose. La prima è l’addestramento e il mantenimento delle capacità manuali del chirurgo, perché ci sono pratiche che non sono tanto ricorrenti, su cui il chirurgo tende a dimenticare manualità e protocollo. Il trainer gli permette di mantenere questo genere di skills. L’altra applicazione è la pianificazione preoperatoria: si ricostruisce virtualmente il corpo di un paziente e sulla base di ciò si può impostare l’intervento in modo da minimizzare i traumi e massimizzare i risultati dell’intervento.

Io poi lavoro anche su altri contesti più legati al mondo dei militari, perché questi progetti sono sponsorizzati dal Dipartimento di Difesa Americano: nella simulazione mi sto occupando molto della surgical gesture recognition, il riconoscimento dei gesti chirurgici. E’ un sistema che traccia i movimenti del chirurgo e permette di fare un controllo di qualità sulla sua performance, identificando se il chirurgo dimentica qualche procedura, se commette qualche imprecisione, se magari è sotto stress e si deve riposare.

Come sei arrivato negli Stati Uniti?

Grazie alla mia testardaggine. Quando ero a Bologna ho fatto un dottorato di ricerca in robotica applicata alla chirurgia e lì ho iniziato a occuparmi di questi temi. Dopo il dottorato sono venuto negli Stati Uniti per un periodo di sei mesi per completare il mio percorso di ricerca e confrontarmi con i colleghi americani; dopo poco che ero qui ho iniziato a ricevere le prime proposte per rimanerci. È stato un po’ complicato venire perché mi sono dovuto scontrare con il mio advisor italiano che non voleva assolutamente che io venissi qua, e mi disse “tu non sei fatto per andare negli Stati Uniti, fallirai miseramente!”. Mi sono impuntato un po’ e alla fine sono riuscito a spuntarla.

Sono molti gli italiani ad Harvard, sia nel corpo studentesco che tra coloro che insegnano?

Ne conosco diversi, sono quasi tutti ricercatori con un background scientifico abbastanza robusto: ho incontrato pochissime persone che hanno un profilo basso, qui ad Harvard. Ci sono anche diversi studenti italiani, che vengono attraverso persone che come me si impegnano a cercare studenti dall’Italia; c’è chi lo fa in maniera sporadica, io lo faccio in maniera intensiva, nel senso che io li porto qui continuativamente.

Sei partito da un piccolo paese della Basilicata. Tu sei in contatto con molti lucani emigrati in America?

Sono in contatto in generale con italiani che vivono qui, ma solo due o tre di loro sono lucani: la maggior parte della gente italiana che è qui viene dalla Campania o dalla Sicilia. Cerco sempre di seguire qualche progetto che li aiuti a venire e imparare e sviluppare le loro carriere qui anche solo temporaneamente, eventualmente per rientrare e portare indietro qualcosa. Inoltre sto lavorando per creare qui a Boston un chapter di UNICO, l’associazione nazionale dedicata agli italoamericani.

I settori del made in Italy dei quali più si parla in America sono quelli classici delle “4F”: food, furniture, fashion, Ferrari. Tu invece sei un’eccellenza italiana nel campo della tecnologia di alto livello. Com’è visto questo comparto italiano dai professionisti americani?

Negli Stati Uniti ci sono moltissimi professionisti e scienziati italiani. La tecnologia italiana è sicuramente una tecnologia abbastanza all’avanguardia: non credo che primeggi esattamente come nei settori da te citati, però comunque nel settore della meccanica siamo molto forti. Ultimamente stiamo anche venendo fuori nel campo dell’applicazione creativa di tecnologie già esistenti, e questa cosa forse ci sta un po’ distinguendo rispetto a prima. Però il nostro processo di assimilazione di tutte le nuove tecnologie è a mio avviso ancora troppo lento. Non credo sia dovuto a ragioni legate alla formazione o alle nostre capacità, ma molto più a fattori relativi alla nostra attuale economia: perché aldilà di questo, ripeto, quanto a ingegneri e scienziati siamo molto competitivi e apprezzati.

Secondo te è vero o falso che vivere in una società che ti crea molti problemi, come ad esempio quelli che ti ha creato il tuo advisor che non ti voleva far partire - o i tanti altri ostacoli burocratici che ci sono qui in Italia, alla fine ti fa emergere, ti fa diventare più bravo a trovare le soluzioni?

Non credo sia del tutto vero. A volte sembra più una giustificazione: anche in ambienti non tanto ostili su questo fronte c’è gente tenace, l’America è un esempio. Forse un ambiente complicato seleziona di più: rispetto a situazioni meno difficili, il numero di chi ce la fa è minore.

In un ambiente come quello dove sono io, che è un po’ paragonabile alla Silicon Valley, ci sono ovunque start up, progetti, ragazzi che si mettono insieme e creano cose nuove: ci si rende conto di quanto un ambiente come questo incrementi in maniera sostanziale la velocità con cui si riesce a capire se un progetto è buono oppure no, e quindi questo rende tutto il processo imprenditoriale più veloce. Si riesce ad imparare subito i meccanismi che permettono di arrivare sul mercato: ma sicuramente un ambiente come questo non è solo un privilegio, è anche più duro, molto competitivo.

Quindi noi italiani saremmo maestri di creatività anche se non ci fossero i problemi che ci creiamo da soli?

Io ne sono convinto. Se siamo stati forti nelle 4F significa che quando eravamo nel periodo del nostro boom industriale e non avevamo i problemi di oggi, eravamo comunque al top. Oggi invece stiamo perdendo tutto quello che le generazioni precedenti hanno creato.

Delle tante differenze tra il mondo accademico americano e quello italiano, il rapporto tra l’università e il mondo dell’impresa è uno di quelli con il più ampio divario. Tu sei impegnato su entrambi i fronti: ci puoi descrivere come funziona in America, e cosa in quest’ambito concretamente si potrebbe introdurre anche in Italia?

Prima di tutto bisognerebbe che nel mondo dell’università italiana si capisse finalmente il concetto di customer care, perché oggi è assolutamente sconosciuto. Nelle università italiane ci sono professori che si atteggiano a baroni – come li chiamiamo noi in Italia - mentre non si rendono conto che sono lì per offrire un servizio agli studenti: dovrebbero privilegiare l’obiettivo di formare buoni alunni e non quello di trattenerli o allungare i loro percorsi. Gli studenti italiani dovrebbero essere aiutati ad essere più flessibili, a cercare di creare connessioni con altri paesi, con le industrie, con le altre università, anziché essere tenuti chiusi in una scatola.

Qui negli Stati Uniti, se un professore si comportasse come questi baroni lo butterebbero fuori subito, perché è fondamentale che nessuno si lamenti del servizio che tu offri. Se fai un’indagine in Italia troverai che il 90% degli studenti si lamenterà dei professori: non dei programmi, dei piani didattici, della qualità dell’insegnamento, ma della qualità del servizio, del rapporto. Il servizio non è solo quello che svolgi in aula, ma è anche il mentoring dello studente: lo devi far innamorare della tua materia, devi fare il possibile per portarlo all’obiettivo.

Un’altra cosa è che in Italia gli stipendi dei professori derivano da contratti con l’università, quindi sono lì a prescindere dai risultati del professore come ricercatore, mentre qui negli Stati Uniti è assolutamente diverso. Qui tu hai il titolo, se il tuo curriculum lo permette: ma questo non ha nulla a che vedere con il tuo stipendio, che invece deriva dalla tua capacità di farti finanziare progetti, quindi dalla qualità dei tuoi progetti. Se non porti nulla, dopo un paio d’anni sei fuori.

Chi finanzia i progetti, l’università o le aziende?

Dipende: lo fanno istituzioni di ricerca (come dicevo, quelli a cui lavoro io sono finanziati dal Dipartimento di Difesa Americano), le aziende, in minima parte anche le università.

Come si configura il rapporto con le aziende?

Sono semplicemente contratti di sponsorizzazione della ricerca: l’azienda è comproprietaria in piccola parte, ma deve pagare per avere il licensing dei brevetti che vengono eventualmente creati dalla ricerca realizzata.

Mi pare di capire che chi esce dall’università americana non si ritrova nella situazione di conoscere tanta, tanta teoria ma nessuna pratica, come succede qua …

È assolutamente il contrario. Il fatto che in Italia si conosca tanta teoria non è assolutamente un male, anzi: gli studenti italiani che arrivano qua e dimostrano che sono capaci di risolvere con tanta disinvoltura difficili problemi teorici, lasciano tutti a bocca aperta, e questo sicuramente è una cosa buona. Però, prima di tutto l’università italiana dovrebbe fare di più per cercare di creare le connessioni agli studenti: è molto raro che coloro che arrivano alla fine siano tanto fortunati da avere un professore che crea loro i contatti giusti, aiutandoli a inserirsi nel mondo del lavoro. Inoltre, serve assolutamente più formazione pratica.

Quando fu fatta la riforma dell’università in Italia, si cercò di copiare il modello anglosassone introducendo il concetto di bachelor e di master degree; prima avevamo la laurea di 5 anni, adesso abbiamo il 3+2. Ma ci si dimenticò che il sistema funziona nel suo intero: il sistema anglosassone è basato su una grande quantità di pratica mediante internship e molte ore di laboratorio, mentre in Italia si è continuato a fare quasi solo teoria. Quindi quando si esce si è più competitivi nel mercato della ricerca, perché si è più teorici, però si è meno competitivi sul mercato del lavoro perché si ha meno esperienza pratica.

Poi, c’è un altro grosso problema, la demonizzazione della volontà di fare impresa. Uno studente che vuole fare impresa non è visto come dovrebbe essere, come qualcuno che vuole fare di più, ma al contrario è visto come qualcuno che spende parte del suo tempo a fare altro anziché studiare: è un grande errore. Qui si è incentivati: il 30/40% degli studenti ha una startup, si mette insieme ad altri e realizza concretamente progetti. In Italia in questo caso lo studente è invece ostacolato, come è successo a me. Nel 2003 io ho creato la mia prima società quando facevo il dottorato. La mia attività imprenditoriale mi faceva guadagnare molto bene, molto di più di quello che guadagnavo facendo il dottorato, perché avevo vinto una borsa di studio: ma ero considerato negativamente perché potevo permettermi cose che altri dottorandi non si potevano permettere, come se io stessi derubando qualcuno. Qui invece è molto diverso: io qui ho semplicemente incontrato gli avvocati delle istituzioni per cui lavoro, abbiamo chiarito cosa faccio fuori e cosa faccio dentro le istituzioni, quanto e quale tempo spendo e dove, siamo tutti d’accordo, abbiamo firmato, mi hanno fatto pure gli auguri e mi hanno detto “bravo, speriamo che i tuoi progetti si trasformino in grandi successi”.

Ti chiediamo di raccontarci le tue attività a favore degli studenti e degli imprenditori italiani, attività molteplici e decisamente meritorie …

A questo tengo molto. Io non sono un fuggitivo, non sono scappato dall’Italia per dimenticarla, anche perché ho una famiglia e tanti amici che ci vivono: sono molto legato al mio Paese, soprattutto alla mia terra. Ma ho capito che stando qui potevo fare molto di più di quello che potevo fare restando là. Così ho iniziato a muovermi su due fronti. Per prima cosa mi sono chiesto cosa manca in questo momento all’Italia in specifiche aree, per esempio in Basilicata, nel Mezzogiorno, e ho capito che manca la cultura di fare impresa tra i giovani, perché sono pochi i ragazzi che si buttano nel mondo dell’imprenditoria e poi ci sono molti problemi legati all’economia.

Dal punto di vista degli studenti, quindi, mi muovo in questo modo: li porto qui negli Stati Uniti a fare un’esperienza in queste grosse università, che si trovano in aree dove ci sono molte startup e molti incubatori, c’è un ambiente imprenditoriale molto vivace e creativo. Quando vengono qua, oltre a fare un percorso formativo nel laboratorio e nell’università, si ritrovano a confrontarsi con altri ragazzi che hanno seguito un percorso di vita differente che li ha portati a fare impresa, e quindi iniziano a capire che loro possono fare altrettanto. Il mio obiettivo è sperare che almeno una parte di questi ragazzi, quando dopo 6 mesi tornano a casa, porti in eredità una mentalità più aperta, più proiettata nel mondo dell’impresa. C’è una scena nel film “The social network”, in cui il Preside dell’università dice “i laureandi di Harvard pensano che inventare un lavoro sia meglio che trovare un lavoro”: ed è esattamente il messaggio che cerco di dare.

Gli studenti italiani che ospito vengono qui per sviluppare le loro tesi di laurea: ora sto cercando anche di farmi stanziare borse di studio da alcune regioni per sponsorizzare i loro sei mesi qui, perché in questo momento loro vengono quasi tutti a loro spese e l’università dà loro soltanto il visto, dopodiché loro si devono arrangiare per il resto. Finora io sono riuscito a portare soltanto studenti dal nord o dal centro Italia. Però poi mi capita di andare nel sud Italia e trovare ragazzi, famiglie che vorrebbero fare questa esperienza, ma non possono permetterselo. Allora ho chiesto alla regione Basilicata di stanziare una piccola borsa di studio di 100,000 € l’anno per sponsorizzare almeno 10 ragazzi lucani ogni anno. Sono in contatto anche con il Politecnico di Bari per fare lo stesso con loro. Questi ultimi due sono per ora solo tentativi, non sono sicuro che arrivino al successo, ma ci sto provando. Sarebbe bello, perché potrebbe creare un flusso, incentivare altre istituzioni del sud Italia a fare lo stesso.

L’altro fronte su cui mi sto muovendo è quello delle imprese. Ho capito che le piccole e medie imprese italiane hanno la assoluta necessità di rafforzare il loro export, ma molte di esse non sanno come fare. Arrivare sul mercato americano richiede tutta una serie di requisiti tecnici e pratici: hanno bisogno di un’infrastruttura di sostegno, e per questo ho creato un consorzio d’impresa che si chiama Triotech Ventures. In questa esperienza mi hanno seguito due amici italiani di successo qui in America, Andrè DiMino e Leonardo Zangani.

Il consorzio trova imprese italiane che hanno un ottimo prodotto ma che non sono in grado di arrivare qui: noi creiamo a nostro carico un’impresa collegata in America, a cui vengono trasferiti i diritti di vendita e di assemblaggio del prodotto nel mercato nord americano. Noi forniamo uffici, segreteria, supporto tecnico, tutta l’infrastruttura che serve, tutto a nostre spese: l’azienda italiana non affronta nessun costo.

Ovviamente noi prendiamo una partecipazione in questa impresa americana, ma lasciamo all’impresa italiana la maggioranza perché le vogliamo garantire il controllo e facciamo solo un trasferimento della parte commerciale, ma non della ricerca e sviluppo. In questo modo si tutela il fatto che il know how rimanga in Italia, protetto. Inoltre noi manteniamo la partecipazione solo a condizione che il risultato venga raggiunto, cioè che arrivino le certificazioni e tutto quello che viene promesso: quindi in questo modo l’azienda italiana non rischia nulla e si ritrova un’infrastruttura in America sin dal primo giorno e a costo zero. Triotech Venture ha sede nell’area di Boston, però il mercato su cui noi prendiamo il licensing copre tutti gli Stati Uniti e il Canada.

Abbiamo iniziato nel settore biomedico, perché è quello che conosciamo meglio noi tre partner, però adesso ci stiamo muovendo anche verso altri settori. Tutto dipende dal tipo di partner che possiamo trovare. Il consorzio è nato nel 2014, abbiamo già fondato e incubato diverse società che sono nel percorso dell’ottenimento delle certificazioni e di quanto altro serve, e se tutto va bene quest’estate dovremmo essere sul mercato con i prodotti delle prime società, mentre procederemo ad incubarne di nuove e ripetere questo ciclo ogni anno.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 19:30