Da quando, nel 2013, ha abbandonato la politica attiva, Walter Veltroni ha potuto finalmente dedicarsi a realizzare il suo grande sogno, quello di fare il regista, che aveva nel cassetto fin da quando, dopo essere stato bocciato in quarta ginnasio al Liceo Torquato Tasso di Roma, riuscì a diplomarsi all’Istituto Statale Roberto Rossellini in cinematografia. Ma, a giudicare dai primi lavori, gli esiti sono stati abbastanza deludenti, come impietosamente hanno sentenziato anche gli spettatori e gli incassi del suo primo film, C’è tempo: 283.428 euro e 45.509 spettatori. E non sembra avere un destino diverso Quando, il suo nuovo film in circolazione dal 30 marzo, tratto dal romanzo omonimo da lui scritto e pubblicato nel 2017.
La prima osservazione che va fatta su questo film consiste nel fatto che non è originale. Veltroni ricalca il film Good Bye, Lenin!, il film tedesco del 2003 di Wolfgang Becker, ma senza la medesima carica ironica. In entrambi i casi si tratta di due militanti comunisti che perdono la memoria: in Quando il diciottenne Giovanni (interpretato da Neri Marcorè) perde coscienza nel 1984 dopo un malore durante i funerali di Enrico Berlinguer e si risveglia nel 2015, 31 anni dopo, mentre nel film di Becker, Christiane, che vive nella Germania Est, cade in coma nel 1989 e ritorna alla vita 7 anni dopo la caduta del Muro Berlino. Sia la vicenda di Giovanni che quella di Christiane si svolgono in una condizione di totale spaesamento, in un mondo dove tutto è cambiato. Nel caso specifico del film di Veltroni, Giovanni si ritrova senza diploma di maturità, con un vuoto temporale che gli scombussola l’esistenza, senza il Partito comunista italiano, con la sua fidanzata ormai divenuta moglie del suo migliore amico di liceo e con una figlia divenuta adulta. Ad aiutare Giovanni a recuperare un’esistenza normale saranno una religiosa, suor Giulia (interpretata da una convincente Valeria Solarino) e Leo (Fabrizio Ciavoni), un ragazzo problematico. In questa vicenda, naturalmente, Veltroni non perde l’occasione di inserire qualche sermoncino di buonismo, come ad esempio nel finale, quando Giovanni è all’esame orale per la maturità: “Professore, io qui mi sento un marziano […] Se ho trovato quello che avevo lasciato. La mia risposta è no. […] Da ragazzo sognavo sogni belli, anche se magari i modi per realizzarli potevano non essere giusti, ma le intenzioni sì, le intenzioni erano giuste. Certe volte penso che mi sarei potuto risvegliare in un mondo che quei sogni li aveva realizzati, in un mondo senza dittature, senza poveri, con l’aria pura e l’allegria tra le persone. Perché no? Perché dovrei pensare che non sia possibile? Ho dormito tanto […] però continuo a credere che non sia impossibile essere felici, che basti accettare l’altro, non serve molto di più, che basti sentirsi un’isola, non tutta la terra e avere coscienza dei propri limiti. Non serve molto di più. E che bisogna amare il poco tempo che abbiamo a disposizione e dargli un senso ogni minuto, ogni giorno. Insomma, vivere guidati dal dubbio e dalla curiosità, dal desiderio di essere utili […], al mondo intero. Ora che sono sveglio, so che non ho molto tempo davanti, però, ho capito che il tempo non è circolare, […] il tempo è una striscia lunga dove si può correre e continuare a scoprire cose nuove sempre e, sulle quali bisogna cercare ancora, cercare sempre...”.
Ma la mancata originalità del film potrebbe essere anche perdonata se almeno Veltroni avesse padroneggiato meglio la grammatica del cinema. Ed è proprio questo il maggior fallimento, che nemmeno la bravura, anche in questo film, di Neri Marcorè ha potuto evitare: la regia è debole, le riprese, perlopiù sostanzialmente statiche, connotano il film con una lentezza non giustificabile nemmeno dalla vicenda del protagonista ed i movimenti di macchina denotano un linguaggio filmico povero e privo di ritmo visivo.
Aggiornato il 13 aprile 2023 alle ore 13:14