È nato a Cassine, in Piemonte. Morirà, a soli 29 anni, a Sanremo. Il corpo senza vita verrà ritrovato in un albergo: era il 1967. La canzone che presentò al Festival – “Ciao amore ciao” – uscì subito di scena, con un’eliminazione che cambiò il corso degli eventi. Luigi Tenco, conosciuto più come autore che come interprete, si presentò alla kermesse canora perché voleva che il pubblico cominciasse ad apprezzarlo. Aveva deciso che le sue canzoni, d’ora in avanti, avrebbero parlato di “problemi sociali, di disoccupazione, di legge sul divorzio, di mafia”. Voleva essere ascoltato da tutti, pure dal pubblico delle canzonette, perché “le idee non valgono da sole, valgono solo se qualcuno le recepisce”.

Antonio Iovane, nel libro “Un uomo solo”, ha raccontato le ultime ore di Luigi Tenco, iniziando dalla fine. Ovvero dalla scoperta di “un corpo inanimato in terra, gli occhi al soffitto, camicia e giacca aperte, canottiera bianca, rivoli di sangue dalla bocca e dal naso che tagliano in due le guance. È notte e qualcuno “avrebbe dovuto accorgersi che si è sparato, Luigi Tenco, si è sparato, è evidente la posizione assunta dal cadavere come conseguenza di ferita d’arma da fuoco a scopo suicida dalla posizione in piedi alla caduta a terra”. E la domanda è: “Chi sarà il primo, chi sta per entrare dalla porta socchiusa, chi?”.

“Ciao amore ciao” – come era solito all’epoca – era interpretata da due artisti con alle spalle una storia sentimentale (Tenco e Dalila, al secolo Iolanda Cristina Gigliotti). Quello era un Festival di Sanremo dove si parlava di rinnovamento, assecondando “lo spirito del tempo”, uno scontro tra “la linea verde contro i matusa, Claudio Villa contro Little Tony”. Luigi Tenco se ne fregava altamente di quella diatriba. Anzi, aveva già ripetuto “io compromessi non ne ho fatti mai, con nessuno, perché non ne so fare, non riesco a venire a patti con la coscienza, cioè con certe mie convenzioni. Io sono come sono”.

Prendere o lasciare: Luigi Tenco non provava interesse per la retorica della guerra “di cui tutti parlano infilandola in mille canzoni tutte simili, il Vietnam è lontano, l’Italia ha problemi che nessuno affronta, la guerra è un sonnifero”. Concetti chiari, espressi a Roma in un dibattito al Beat ’72: “Possiamo protestare contro il clericalismo, l’affarismo, la corruzione, la mancanza di una legge sul divorzio, gli scandali a ripetizione, il qualunquismo, la burocrazia bestiale… e questa protesta non viene mai fatta. Preferiamo scimmiottare le proteste americane, cosa oltretutto facilissima qui in Italia, dato che non c’è nessuno che si senta pizzato quando tu gli dici che è sbagliato morire, viva la pace, eccetera. Parlagli di divorzio, della mafia e di altre faccende che scottano, e allora vedrai che la gente si arrabbia e ti dà addosso”.

Anticonformista, testa pensante, fuori dagli schemi: questo era l’artista su cui si è concentrato Antonio Iovane, con una attenzione particolare all’ultimo giorno di vita di Luigi Tenco “ma anche alle ore successive, quelle in cui si accavallano dichiarazioni terribili da parte di colleghi cantautori e giornalisti, quelle del più tragico e indegno show must go on che l’Italia abbia mai conosciuto”. Un romanzo vero, autentico, che ha cercato di spiegare “le contraddizioni di un artista fuori dal tempo”.

Un personaggio che Giorgio Gaber, parlandone con un giornalista del Secolo XIX, ricordò come “un uomo in perenne contraddizione con se stesso; tant’è vero che nel corso della sua breve carriera egli cambiò spesso pseudonimo. Eternamente insoddisfatto, era tornato negli ultimi tempi al suo vero nome. Era il nome di un uomo fragile perché Tenco, non va dimenticato, era prima di ogni altra cosa un uomo solo”.

 (*) Antonio Iovane, “Un uomo solo”, Mondadori-Strade blu, 132 pagine, 17 euro

Aggiornato il 11 febbraio 2022 alle ore 17:55