Il ritorno del buon selvaggio

Nel Settecento, il filosofo ginevrino Jean-Jacques Rousseau scrisse un ben noto saggio di pedagogia – Émile o dell’educazione (1762) – il quale partiva da un assunto sulla natura dell’uomo ben precisa: l’uomo nasce buono ed è corrotto dalla civiltà. Il pensatore si faceva erede di una ormai consolidata tradizione di pensiero, che affondava le proprie radici nella cultura romantica francese e tedesca, secondo la quale l’uomo sarebbe un animale chiamato a vivere nella sintonia più totale con la natura “selvaggia”, incontaminata, e dal momento in cui egli ha iniziato a fondare quella che chiamiamo civiltà, a partire dalla “invenzione della proprietà privata”, sarebbe iniziato un periodo di declino e imbarbarimento, mascherato sotto le etichette dei galatei e dei grandi sistemi filosofici, etici e religiosi. Questa visione è nota agli studiosi come “mito del buon selvaggio” ed è un topos che si è ripresentato varie volte nel corso della storia del pensiero umano: in certa misura, ad esempio, è presente anche nella letteratura psicologica di Sigmund Freud, quando egli asserisce che la civiltà è un sistema complesso di sovrastrutture, di norme repressive dettate dal Super-Io all’Es, all’inconscio, il quale ricercherebbe invece solo il piacere.

La visione dunque è in se stessa molto semplice da comprendere: la natura (intesa come ambiente, ecosistema extraumano) è intrinsecamente buona e l’uomo è parte integrante di essa. La razionalità e la manualità, facoltà umane da cui si è generata la cosiddetta civiltà, rappresenterebbero più che altro elementi di destabilizzazione, che hanno portato l’uomo a spadroneggiare sulle risorse e dunque a sconvolgere l’equilibrio cosmico. L’istinto, la sensorialità, l’immaginazione – a dispetto di quanto hanno insegnato le religioni e le filosofie spirituali, ma anche il razionalismo e il positivismo otto-novecentesco – avrebbero il primato sul calcolo, sulla morale, sull’inventiva. Questa visione sta oggi tornando molto di moda a causa dell’ideologia ambientalista. E uso il termine “ideologia” non a caso, perché reputo tale dottrina profondamente falsa e perniciosa sin dai postulati posti in premessa. Ogni volta che le idee predominano sui fatti, si fa ideologia. Ogni volta che si rifiuta di adeguare l’intelletto alla realtà esterna, che pure ci precede, si fa ideologia. Quando invece c’è quel soave adeguarsi della conoscenza alla cosa per come essa è, ecco che si fa verità. I postulati della filosofia ecologistica sono falsi in partenza, si diceva. Ancor prima di esaminare gli effetti dunque (le visioni politiche e antropologiche, ad esempio, dove la collettività assume importanza e priorità rispetto agli individui), bisogna verificare se sia vero che la razionalità si oppone all’istintualità e se sia vero che la civiltà è causa di involuzione.

Nell’Ottocento, Rudyard Kipling scrisse una serie di racconti incentrati sulla figura di Mowgli, bambino abbandonato in età neonatale nella giungla e allevato dalla tigre Shere Khan e in seguito dal branco di lupi del Popolo libero. Mowgli si rifà alla tradizione del buon selvaggio e appare come un uomo forte, coraggioso, lucido, con capacità superiori alla norma. Un altro grande classico di primo Novecento – ma dal sapore ancora fortemente ottocentesco – è il Tarzan di Edgar Rice Burroughs, che mette ancora più in evidenza la bontà della pedagogia della giungla. Il ragazzo è educato da scimmie e, una volta ritrovato da esploratori britannici e traslato nella civiltà capitalistica londinese, egli – ormai uomo maturo – decide di tornare nella giungla, in veste di esploratore. Queste narrazioni, che tanto hanno fatto fantasticare i ragazzi, contrastano con un episodio storico e poco conosciuto ai più, avvenuto nel 1867 in India. Alcuni cacciatori scoprirono, per fortuito caso, un ragazzo poco più che ventenne in una grotta abitata da lupi. Il ragazzo – cui fu dato nome di Dani Sanichar – era stato evidentemente abbandonato in piccolissima età nella giungla, ma questi, piuttosto che essere divorato dalle fiere, era stato “adottato” dai lupi, proprio come il Mowgli di Kipling. Sanichar si comportava come un cane: tendeva a camminare su quattro zampe, strabuzzava gli occhi e inclinava il capo come fa un cane, ringhiava ed emanava versi che dalla gola di un essere umano ricordano più un suono infernale che il latrato di un lupo. Dani Sanichar presentava molti problemi mentali, aveva compromesso la capacità di linguaggio e, al contrario di Tarzan, non aveva una capacità di udito o di vista superiore alla norma degli umani civilizzati. In compenso, durante la sua breve permanenza tra gli uomini, sviluppò una fortissima sindrome ansiosa, che sfogava con una dipendenza esagerata da tabacco. Il povero sfortunato morì nel 1895, a causa della tubercolosi, che non aveva neanche trent’anni.

Tutt’altro che un buon selvaggio, dunque. In una visione storica più generale, si potrebbe dire che il mito ambientalista del buon selvaggio è una resa secolarizzata di un’antica posizione teologica e ritenuta eterodossa dai primi cristiani, che prende il nome di pelagianismo. Pelagio, monaco celta del IV secolo, ripudiava la dottrina cristiana del peccato originale e riteneva che l’uomo nascesse innocente agli occhi di Dio, privo della colpa atavica e tarato soltanto dagli effetti che quella aveva prodotto sul corpo (come la morte e la corruttibilità). In altre parole, l’uomo nascerebbe buono. Questa dottrina fu duramente combattuta da Sant’Agostino di Ippona, il quale invece ribadì la dottrina fino ad allora professata: l’uomo nasce colpevole agli occhi di Dio, perché eredita non soltanto gli effetti, ma anche la colpa del peccato di Adamo. Concretamente, questo significa che l’uomo tende per propria natura – in quanto corrotta dal peccato originale, evidentemente, non in quanto creata tale dalle mani divine – più a compiere il male che a compiere il bene. Senza giungere alle estremizzazioni di Lutero e Calvino, diversi secoli più tardi, secondo i quali l’uomo non può che fare il male, la posizione teologica ufficiale della Chiesa ribadiva così la necessità di un’autorità morale che aiutasse, guidasse, ammonisse, correggesse l’uomo nel compiere ciò che è giusto.

Non bisogna però buttar via tutto quello che è presente nel mito del buon selvaggio. In esso, come in ogni errore, c’è un elemento di verità. Lo psicologo Claudio Risé ha pubblicato nel 2015 un saggio dal titolo Il maschio selvatico (edizioni Paoline). Partendo da una frase di Leonardo Da Vinci – “il selvadego è colui che si salva” – lo studioso, di formazione junghiana, intravede nel Puer, il bambino, un archetipo paradossale della virilità. La selvatichezza del bambino è dovuta alla sua razionalità vergine, che non si oppone alla natura, ma che si confronta con essa, ne è atterrito eppure affascinato, la tocca e la perfeziona. La civiltà allora non è la dualistica nemesi del cosmo, ma il suo compimento, e si capisce come non sia possibile vera civiltà senza conoscere la natura interiore dell’uomo, ancor prima della natura esteriore.

Aggiornato il 06 ottobre 2021 alle ore 10:32