Il termine “monumento”, nel linguaggio comune, evoca qualcosa di grande che esige rispetto e che ricorda qualcosa di importante. Esso, quasi sempre, si presenta come un oggetto, per esempio una statua, posto in un luogo nel quale non può non essere visto, dove si impone con le sue dimensioni e, soprattutto, con la sua inamovibilità.

Tuttavia, se considerato in luce antropologica, un monumento e, anzi, la tradizione universale dell’erezione di monumenti, offre spunti insospettabili di riflessione. A questo obiettivo si orienta lo stimolante libro di Gian Piero Jacobelli (Al fuoco!, Per una Critica della Ragione monumentale, Luca Sossella Editore, 2020) nel quale il concetto e la realtà fisico-simbolica del monumento vengono posti al centro dell’analisi attraverso un esame che trae origine non solo dalla storia e dunque dalle numerose e intuibili esemplificazioni della monumentalizzazione ma scava a fondo sulle ragioni di tale processo e sulle sue evoluzioni nel tempo.

Il monumento, in questo quadro, non è più solo il segno della memoria collettiva, un punto fermo che segnala qualche incrocio significativo della storia dei popoli, ma esibisce una propria dinamica sia interna (per esempio l’usura del tempo) sia e soprattutto esterna, ossia nei suoi rapporti con il mutamento culturale. Quest’ultimo aspetto, inutile sottolinearlo, assume particolare risalto in questi giorni che vedono, in varie parti del mondo e per diverse motivazioni, numerosi casi di violenza su monumenti di varia natura. Una singolare contemporaneità che ovviamente rende il libro di Jacobelli ancor più interessante.

La monumentalizzazione, nella visione di Jacobelli, è un processo incessante attraverso il quale un evento, un personaggio ma anche un’idea o un riferimento naturale, vengono esaltati da modalità di presentazione che ne facciano qualcosa di centrale e di ineguagliabile, qualcosa, in definitiva, che ambisca a presentarsi come non ordinaria e ricorrente. Per questo, la monumentalizzazione emerge anche nella vita quotidiana attuale in cui “sarebbe inutile accumulare gli esempi, che abbiamo quotidianamente sotto gli occhi: sfogliando i giornali, che ogni giorno scoprono un nuovo ‘monumento’ letterario, artistico o musicale, dove meno te lo aspetti; o restando a bocca aperta davanti agli schermi televisivi, che aggiungono la perversa suggestione delle immagini a quella più sfumata, evanescente e perciò più negoziabile delle parole” (p. 75). Si tratta insomma di una situazione nella quale i monumenti attuali ogni tipo, pur essendo motivati dalle stesse ambizioni di sempre, finiscono per sostituirsi senza tregua sulla base di un loro crescente carattere effimero e provvisorio, realizzati con una frequenza inusitata nel passato con le sue grandi costruzioni che tutti conosciamo, destinate a durare nei secoli e che esigevano decenni di lavoro.

Anche per mezzo di un vasto e raffinato inserimento del tema nella tradizione filosofica, storica e anche mitologica, Jacobelli riesce a fare del monumento una chiave di volta grazie alla quale intuire i caratteri stessi della cultura o, sarebbe meglio dire, delle culture che, in ogni tempo e luogo, hanno invariabilmente visto nella monumentalizzazione l’occasione per esprimersi o per propagandare immagini dell’uomo o del potere, della religione o dell’arte, ma anche dello sport o della tecnologia. Un processo che si riproduce continuamente su vari piani per mezzo di varie modalità in cui peraltro domina quella che Jacobelli chiama, non senza ragione, “l’arbitrio della monumentalizzazione” (p. 110) il cui effetto desiderato, aggiungiamo noi, non è certo quello di stabilire forme di concorrenza fra valori o principi, bensì quello di decretare un primato nell’illusione di renderlo eterno e irreversibile.

Aggiornato il 15 luglio 2020 alle ore 13:22