La categoria del “senso” nell’agire umano è stata al centro dell’attenzione di autori fra i quali vanno ricordati, quanto meno, sociologi e filosofi come Max Weber e Alfred Schütz. Con l’eclissi dei grandi quadri culturali di riferimento, laici e religiosi, del passato, che costituivano la fonte principale del senso come viatico dell’esistenza, la responsabilità della sua individuazione è quasi del tutto nelle mani dei singoli, persone o individui i quali, anche tramite la relazione, cercano di costruire modelli di pensiero, cioè di interpretazione della realtà, gratificanti e magari condivisi.

Non a caso, tuttavia, la letteratura e il teatro del secolo XX e anche dell’attuale, da Pirandello a Ionesco, per intenderci, si colloca a fianco della sociologia e della stessa psicologia, nel sottolineare la precarietà e la volubilità del senso a partire da un’altra categoria che, idealmente, costituisce il nesso capace di agevolarne la ricerca e il reperimento , ossia la comunicazione.

Il racconto, nell’opera drammaturgica di Giuseppe O. Longo intitolata “La stagione dei viaggi” (Eut Edizioni Università di Trieste, 2018), è il vero protagonista. Ma il racconto esige comunicazione e, questa, non può far leva se non sul linguaggio, la o le semantiche, dando luogo ad una sorta di intricato accatastamento di significati nei quali il racconto, come proposizione di senso da parte dell’uomo verso un altro uomo, finisce per generare immagini aggrovigliate e arbitrarie.

Scorrendo la raccolta completa dei lavori teatrali che Longo propone ne La stagione dei viaggi, non si può evitare di cogliere un pessimismo, a volte tenue e a volte duramente incombente, che l’eleganza della scrittura rende persino gradevole, e di quando in quando ironico. I personaggi non si agitano nel nulla più totale di senso come nei lavori di Ionesco né il significato delle loro parole svanisce con il loro stesso risuonare, come è in Beckett: essi parlano, discutono e, appunto, raccontano con apparente correttezza formale e sostanziale. Però è del tutto incerta la misura, per così dire, della loro reciproca comprensione. Essi, coppie di coniugi o amici, laici e religiosi o personaggi reali e fantastici collocati in una reale o solo possibile storia passata, si affidano disperatamente al linguaggio per comunicare ma, in fondo, trovano soddisfazione, del resto solo parzialmente, nell’unica sede che in qualche modo “funziona”, ossia nel comunicare con se stessi. Il gioco al rimpiattino, fra la propensione verso la relazione con l’altro e il ripiegamento sull’auto-racconto, fornisce al lettore una stratificazione di immagini nella quale i piani soggettivi e oggettivi si scambiano continuamente il ruolo di attrattori dell’attenzione. In altre parole, è come se il lettore fosse chiamato a far parte egli stesso del racconto che gli viene offerto, adeguando tuttavia la propria attribuzione di senso – nei confronti dello svolgimento degli eventi – all’attribuzione di senso che ne danno le figure umane del racconto.

Anche nei drammi nei quali l’assurdo sembra dominare, Longo inserisce costantemente una sottile linea logica, quasi per aiutare lo spettatore o il lettore a trovare il giusto fondamento di un senso che, custodito segretamente nell’animo dei personaggi, rimane disponibile alla rielaborazione. Nella voluminosa raccolta, che si può intendere come opera del tutto unitaria, si delinea con chiarezza la decisa volontà dell’autore di conferire all’intuizione, sempre soggettiva, il ruolo peculiare dell’interpretazione sia di ciò che i personaggi comunicano fra loro sia, e forse soprattutto, del senso stesso che il lettore coglie o produce nella relazione che si stabilisce fra sé e il racconto.

Aggiornato il 18 ottobre 2018 alle ore 12:08