Non sono matto! Sono un artista!”. Così gridava disperato Antonio Ligabue ai suoi detrattori e schernitori. Personalmente, soprattutto nell’Arte, non ho mai trovato nessuna vera compartimentazione tra Genio e Follia. Semplicemente entrambi, come nella schizofrenia, hanno il fulcro comune nel carattere sorgente della personalità che esprime i tratti profondi, esaltanti, imprevedibili, inquietanti e radicalmente innovatori della... Diversità. Si può essere deformi, autolesionisti, folli, brutti e scostanti, come Van Gogh e Ligabue, ma al tempo stesso offrire al mondo un discorso di sé che riflette sugli aspetti immanenti e oscuri del destino comune degli uomini.

Il bellissimo film “Volevo nascondermi” (in uscita differita nelle sale italiane) sulla vita del più controverso e sorprendente artista italiano svizzero-emiliano della prima metà del XX secolo (Ligabue muore nel 1965 per le complicazioni di un’emiparesi destra, il lato del... pennello!) porta la firma del regista Giorgio Diritti che dirige uno straordinario Elio Germano. E, in proposito, anche in considerazione della personalità dei due artisti e della loro eccezionale prestazione come interpreti, viene spontaneo il confronto tra Willem Dafoe (nel suo Van Gogh del 2018) e lo stesso Elio Germano, raffrontando le due regie e la relativa capacità di estrarre l’anima da quelle inquietanti prospettive manicomiali, dalle pulsioni maniaco-depressive autolesioniste che hanno fatto brillare storie artistiche in fuga dai canoni già rivoluzionari dei movimenti pittorici precedenti e contemporanei.

Ligabue è un uomo-uccello, che disegna un enorme rapace sulla piana alluvionale del Po servendosi di un semplice ramo. Lui gode dell’istinto della terra che odora di umido, trasuda di humus del bosco e in cui si animano creature diurne e notturne attentamente studiate e poi raffigurate. La passione per gli animali è l’elastico rilassato che stempera la follia, lo fa entrare nel recinto dei galli per imitarne le mosse del combattimento e far divertire un pubblico di bambini. Le piume di cui si adorna dopo aver indossato indumenti intimi di donna rappresentano per Ligabue l’appropriazione ideale e surreale di quel corpo femminile per lui dannato, non riuscendo mai a soddisfare il suo intenso, doloroso desiderio carnale sempre invano inseguito, malgrado il bisogno estremo di contatto fisico che mantenne sempre aperta la sua ferita inguaribile di assicurarsi un affetto muliebre. Aspetti, questi ultimi, che gli mancheranno sempre, leniti soltanto dalla presenza di una figura caritatevole come la madre del suo amico e mecenate. Germano-Ligabue (grazie a un trucco davvero magistrale e allo studio acutissimo di aspetti, caratteri e atteggiamenti peculiari della follia) morde i nervi scoperti della colpa comune del rifiuto sociale del Diverso, soprattutto in quelle piccole comunità in cui il fattore di prossimità moltiplica per mille le occasioni dell’incontro quotidiano con il disagio provocato dalla pazzia dell’Altro da noi.

Germano e Diritti sono estremamente abili, acuti e intelligenti il quel loro scavare i solchi e allo stesso tempo confonderli in una miscela di fango, campagna, bosco, animali da cortile uniti ai colori accesi della passione meccanica di Ligabue per moto e auto che costituirono per davvero una sua protesi tesa ad afferrare i frutti della modernità, con le cavalcate solitarie in motocicletta lungo i sentieri sterrati della pianura padana. Finalmente correre a perdifiato in sella al motore, sublimando la storpiatura della sua postura che lo rendeva deforme nell’immagine pubblica con quel suo volto torvo, scavato e sempre proteso in avanti, aperto come un’enorme fauce simile a quella delle sue adorate fiere per divorare il Male del mondo, il suo e quello di tutti noi.

Nel pieno delle crisi, come quando muore una bambina molto piccola alla quale si era particolarmente affezionato e che va a trovare nel cimitero, non accettando l’idea di morte per quella esistenza appena sbocciata, ulula come un lupo, si rotola a terra al pari di un epilettico, vuole diventare un grande uccello per vedere il mondo dall’alto, spiegare le immense ali verso il cielo, in modo da aggredire e sbranare le belve che lo tormentano. E poi: sopravvivere a tutte le avversità iniziando a dipingere se stesso in cento modi, con lo sguardo drammaticamente rivolto allo spettatore per chiedere lumi, per ricordare che anche lui, la sua esistenza, come gli disse lo psichiatra tedesco nel suo primo ricovero da adolescente in manicomio, doveva pur avere un senso in questa vita terrena. Semplicemente, testimoniare che lui era figlio dell’Arte.

Aggiornato il 26 febbraio 2020 alle ore 11:59