“La Locandiera”, ritorno al futuro

Che cosa ci siamo dimenticati nel passato? Carlo Goldoni, in particolare, se parliamo di teatro. Così, Antonio Latella ne rivisita La Locandiera (in scena al Teatro Argentina fino al 28 aprile) tornando indietro nel XVIII secolo con i jeans e le vestarelle corte e le gonne strettissime e lunghe, o con gli spacchi profondi come vanno di moda oggi. Direte Voi: ma, Goldoni sarebbe contento? Beh, se la stragrande parte del suo “content” (contenuto) è però conservata in questo non-contenitore teatrale, in cui la scenografia si limita a un enorme bassorilievo piatto e ligneo di finte porte, armadi e finestre, posto sullo sfondo come un gigantesco arazzo ligneo, allora in questo caso, dicevamo, si può ancora parlare di Goldoni. Completano lo scenario un blocco cucina posto sul limite del lato destro e un tavolo con poche sedute, collocato nella parte a sinistra del palcoscenico. Poi, c’è lei: la Regina dell’ospitalità, affascinante e provocante come Sonia Bergamasco, nel ruolo di Mirandolina. Ape Regina di una combriccola di figure maschili farlocche, dove il brando e più brandy che spada, e la ricchezza serve solo a misurare chi ce l’ha più lungo (il conto in banca, per numero di zeri dopo l’uno), nella misura degli zecchini d’oro e dei paoli. Per il resto, giocano il loro ruolo magistrale di peripatetiche due artiste di teatro di bocca buona, che si accontentano anche dei guitti (assoluta maggioranza nella vita) e dei nobili spiantati che giocano del tutto inutilmente al “lei non sa chi sono io”. Perché, poi, quel genere di titoli nobiliari scaduti vale tanto quanto il numero di palle in uno stemma appeso nel fienile di una stalla.

Sì, perché anche qui non si scherza con il Grande Veneziano: la cavalla è una, ma i cavalieri che vorrebbero montarla sono tanti e, a quanto pare, il più riottoso di loro è quello che l’affascina di più per poterlo infine sbalzare, faccia nella polvere, con maggiore gioia e godimento. L’imbecillità maschile è perfettamente tripartita: da un lato, c’è il Cavaliere riottoso, l’unico che l’interessata vorrebbe la cavalcasse; poi, al centro, due nobili scialacquatori, mentalmente deprivati, eterni rivali per il possesso simbolico della bella locandiera, di cui l’uno è ancora pieno di sostanze, che spende e spande in costose gioiellerie, pur di avere le grazie della donna desiderata. Mentre l’altro ha già sperperato in femmine e bella vita tutte le sue sostanze, vivendo a credito e a scrocco di quelle altrui. Tanto per sottolineare la finezza, tutti senza distinzione sono scapoli impenitenti senza moglie, né prole, avendo diritto alla deresponsabilizzazione che, però, fa proprio una gran brutta figura nel copione spietato di Goldoni che disegna i loro personaggi alla stregua degli inutili fantaccini, buoni per adornare i divani del pettegolezzo. Infine, ci sono i “proletari”, impersonati dai due camerieri.

Il primo, servente del Cavaliere che odia le donne e che perciò, in quanto tale, sarà duramente punito dalla malìa della locandiera. Il secondo, invece, è un dipendente della locanda, che il padre ha fatto promettere alla sua adorata Mirandolina di prendere come marito. E così, la giostra delle metafore goldoniane gira in tondo, con le sue belle figurine che ruotano sempre sulla stessa pedana dell’imbecillità dell’essere, come se la vita fosse sempre un pasto gratis, dove il resto del mondo e le sue miserie scompaiono per non riapparire mai, annegati nel lago delle banalità senza fondo, né misura o vergogna. E così la vita si adagia e si acconcia sui manicaretti gustosi preparati dalla locandiera; sui fazzoletti impreziositi; sulle boccette d’oro contenenti essenze pregiate; sulla biancheria da camera perfettamente pulita e stirata e di buona qualità. Ovviamente, c’è chi può pagare il conto e chi non potendo offre a destra e a manca la sua inutile “protezione”, come accade in tutti i sistemi proto mafiosi e feudali, restando la cosa poco e affatto credibile, in mancanza di armieri e di terre da comandare. Ma la morale ci dice che i delitti d’amore puniscono che li commette come pure chi li subisce, per una misteriosa circolarità che funziona come le onde corrugate concentriche che si generano quando si lancia un sasso nello stagno, “indipendentemente” dalla mano che ha agito.

Insomma, nelle pene d’amore la persona umana è assassina e vittima allo stesso tempo: il Cavaliere che vuole simbolicamente assassinare la donna con la sua manifesta indifferenza, ne diventa in metafora la vittima inconsolabile. Ma, chi ha ottenuto la sua vendetta vittoriosa, come Mirandolina, rischia nell’epilogo di perdere anche il suo vero amore che le è da sempre fedele e di lei perdutamente innamorato. Certo, al tempo dei social questo è davvero un “ritorno al futuro”!

Aggiornato il 19 aprile 2024 alle ore 14:39