Un cantico per Benigni, forse è troppo

Forse chi ha la mia età lo ricorda, negli anni Ottanta una televisione nazionale ancora attenta alla diffusione della Cultura, programmò una bella serie di letture della Commedia di Dante, ad opera di tre grandi attori del nostro paese: Vittorio Gassman, Arnoldo Foà e il grandissimo Giorgio Albertazzi. Ne seguirono altri, anche se non televisivamente ma con eccellente successo, ultimo giunse Roberto Benigni che forse fu quello che, comunque, riscosse maggior applauso da parte del grande pubblico.

Benigni, che da buon erede di quella facondia e verve fiorentina, da “maledetto toscano” ha preferito scegliere di rifarsi a quella tradizione popolana e popolare della Commedia e non a quella colta e raffinata dei suoi più augusti predecessori; in realtà l’avrei preferito nei panni di un Cecco Angiolieri o di Jacopone da Todi o meglio ancora in quelli di un Aretino o anche in certe novelle del Boccaccio, ma si sa che chi governa comanda anche in campo culturale.

Adesso, a Sanremo, vetrina sempre meno canora e sempre più dedita alla “comunicazione d’immagine” del Terzo Millennio, dopo un modesto cantante del quale non ricordo più neanche il nome, presentatosi in monotuta luccicante e tatuaggi sparsi, adducendo come fonte del proprio abbigliamento nientemeno che il Poverello d’Assisi e l’immenso Giotto da Bondone – possa Dio perdonarlo, ma non credo farà altrettanto il pittore fiorentino – il nuovo riferimento culturale della Rai è stato ancora una volta Roberto Benigni. Che a me personalmente piaceva molto ai tempi felici de “L’Altra Domenica” di Renzo Arbore o prima ancora nella sua sperimentale e dissacrante “Onda Libera”, mi piaceva quando era il Benigni di “Berlinguer, ti voglio bene” e quello cinematografico di “Non ci resta che piangere”.

Ma ormai al bravo attore toscano si dà da leggere e interpretare qualsiasi cosa, fors’anche la lista della spesa della Sora Cesira o l’elenco degli elementi che compongono una pizza surgelata, quindi inutile stupirsi se la direzione del Festival ha deciso di affidargli l’interpretazione di uno dei brani più belli, simbolici, struggenti e – sì anche – erotici, dell’intera letteratura umana: quel Cantico dei Cantici che viene dall’Antico Testamento, opera di quel mistico Re e mago che fu Salomone. Eros carnale e sacro, simbolico e manifesto, inno d’amore d’un uomo per la propria sposa, in un crescendo di versi che sono poesia e incanto di bellezza al tempo stesso.

Anni fa, sconosciuta ai più, ne diedero magnifica versione musicale David Riondino e gli Opera e persino Iva Zanicchi poi, peccato che il messaggio che dà Benigni, in ordine al pensiero progressista e materialista, ne rifiuti ogni simbolismo metafisico sino a ridurlo non già all’amore più completo di un uomo per una donna ma la manifestazione di un rapporto soltanto fisico e addirittura ad un peana a qualsiasi tipo di rapporto tra corpi di qualsiasi genere. Ovviamente l’arcobaleno lgbt ringrazia per questo ennesimo endorsement che stravolge – volutamente mistificandolo – il reale significato del Cantico.

Ma questo è, grazie al calandrino Benigni che vorremmo ritornasse invece a declamare con dovizia di particolari il mitico elenco di nomi sullo “sventrapapere” che a suo tempo donò al pubblico di un’icona pop come Raffaella Carrà. E lasciamo stare Giotto, vi prego.

Aggiornato il 07 febbraio 2020 alle ore 10:53