La Commedia della Vanità, quando la dittatura persegue il genocidio dell’Io

Per capire la Vanità ci vuole molta... Pazienza! Sì, perché il sontuoso spettacolo teatrale, La Commedia della Vanità, messa in scena dal regista Claudio Longhi al Teatro Argentina di Roma (resterà in cartellone fino al 9 febbraio) non solo ha una durata francamente eccessiva di quasi quattro ore, ma la sua fruizione e godimento globali si presentano piuttosto problematici a causa dell’addensarsi di recitativi congestionati, interferenti, multipolari e altisonanti, all’interno di una fucina mai sazia di simboli, significati e discorsi a margine. Risaltano in tal senso gli interessanti chiaroscuri e le movenze di ispirazione brechtiana, nonché i riferimenti satirici alle vignette dissacranti di George Grosz, la cui sostanza fantasmatica la si ritrova particolarmente marcata nella scelta dei costumi e nel soma del personaggio caricaturale dell’imbonitrice della casa di tolleranza per la copulazione narcisistica, di prima, seconda e terza classe per ritrovare l’Io negato non più in grado di riconoscersi allo specchio. Nel dramma farsesco, infatti, la metafora della dittatura feroce e spietata si realizza interamente nella proibizione, a pena della condanna capitale, dell’uso degli specchi sia in ambito privato che pubblico. Per stretta conseguenza, anche le fotografie sono severamente proibite: le persone che a qualsiasi titolo le possiedono e, soprattutto, i fotografi sono i veri nemici giurati della società, e per questo vengono perseguitati e severamente condannati.

Immagine parlante quest’ultima di una questione identitaria volutamente denegata da una società senza più occhi per guardarsi dentro, stregata dall’ideologia e dalla voglia di genocidio nei confronti dei possessori degli specchi proibiti, prossima a scivolare nel catino rovente del Secondo conflitto mondiale e nella terribile sagra dei fascio-comunismi della prima metà del XX secolo. Il disorientamento che si prova nella fatica obiettiva e decisamente sovraumana nel seguire lo spettacolo (supportato da una scenografia sontuosa e dinamica, attrezzata con pareti mobili e su più livelli per la rappresentazione scenica a più dimensioni spaziali e temporali) ha una spiegazione ovvia: la mente e l’occhio fanno grande fatica a seguire una compagnia di decine di interpreti che si propala e satura tutti gli spazi residuali a disposizione, come il vento subdolo della vanità denunciato e fustigato da un presbitero (ipocrita e assatanato di piaceri carnali in privato) sproloquiante alla Lutero. Gli attori dilagano e sciamano in tutti i corridoi e in numerosi palchi del teatro, con miniensemble che si costruiscono e si dissolvono molto rapidamente dentro e fuori il palcoscenico. Ma c’è molto di più nelle scene di Longhi come nel testo di Elias Canetti. Traspare, in particolare, la violenta quanto silenziosa ribellione dello scrittore alle teorie freudiane sull’Io e sull’Inconscio, narrata in metafora attraverso le immagini drammatiche di una popolazione che non potendosi più guardare allo specchio perde la dimensione temporale ed essenziale dell’invecchiamento nel tempo dei singoli individui, che non sanno più rispondere al quesito fondamentale esistenziale di: Come sono Io visto da fuori?”.

Allora, le ragazze che della Vanità sono le ancelle privilegiate si inseguono e si accoppiano per guardarsi reciprocamente negli occhi al fine di percepire la loro corporalità negata, per cui anche negli amanti si cerca un’iride neutra che renda la propria immagine riflessa la più nitida possibile. Cosicché i quadrumviri che stanno al vertice della dittatura stabiliranno nelle loro riunioni segrete che i loro sudditi dovranno fisicamente essere accecati! Le donne, soprattutto, vengono colpite in quanto disposte a qualsiasi mercimonio con il Diavolo che vende al mercato nero la visione di sé nello specchio dato in uso a caro prezzo solo per qualche rapido minuto. Di fatto, i loro volti femminili sono divenuti ormai caricaturali, con trucchi pesanti che debordano da labbra e guance rendendole simili ad altrettanti clown nel circo aberrante della Vanità, dove un direttore dispotico della Casa di cura per astinenze prolungate da specchio impazzisce naufrago della sua schizofrenia, in cui una metà di se stesso è costretta a dialogare con l’altra cambiando voce e carattere nel passaggio di ruoli. Ma l’Io non può estinguersi facendo dei senzienti dei fantasmi di se stessi. Allora, un rimedio comune è quello di confezionarsi una canzone personalizzata che distingua ciascun individuo da tutti gli altri. E, ancora una volta, su questo ripiego si abbatterà l’anatema della dittatura.

Aggiornato il 31 gennaio 2020 alle ore 14:47