Cinque donne del sud

Mater Familiae. Incantevole racconto, messo attualmente in scena alla Sala Umberto per due sole repliche fino al 29 ottobre, cadenzato attraverso un monologo di straordinaria maestria (vedere per credere! Praticamente, un baule che contiene i suoi personaggi, alla Houdini) da una inesauribile Beatrice Fazi, su testi dirompenti, esilaranti, umanamente profondi e iconoclastici dell’autrice-regista dello spettacolo, Francesca Zanni. Ovvero, storia di cinque generazioni, dalla fine dell’800 a oggi. Quando, cioè, si era madri appena adolescenti e lo si ridiventava tante di quelle volte, tra figli nati vivi e quelli morti in itinere o successivamente, da arrivare a essere pregne assieme alla propria figlia maggiore. E, ogni volta, il parto dava luogo all’odiata… “tartaruga”: nomignolo che si riferisce alla conformazione del basso ventre femminile. Un padre che sogna un..pistolino, mentre una madre tutta casa, accudimento, allattamento e infinite fatiche quotidiane deve tenere a bada, nutrire, lavare e vestire il suo piccolo esercito di scalmanate. Parte rimaste zitelle crescendo, che non le si era potute maritare per mancanza di mezzi nell’impossibilità di assicurare loro una dote, o perché bruttine (ma tanto puttane, per cui alla fine se la sono cavata meglio di altre!). Altro sicuro rimedio: farle suore.

Lì, al convento, vitto, alloggio, un tetto e un saio e tante preghiere per i propri cari defunti e viventi erano assicurati. Del resto, per le famiglie povere e numerose la via dei voti religiosi era l’unica sinecura contro la fame e l’indigenza. Perché poi, si sa, badesse e abati erano sempre figli cadetti di qualche grande famiglia nobiliare o borghese che venivano spediti a gestire i confessionali per non dare noie al primogenito sull’eredità di famiglia. Ovviamente, ad andarsene in America per non sopportare quel gineceo opprimente è il marito e padre deluso, amante compulsivo e incontinente. Allora i figli venivano come li mandava il Signore e se uno aveva bisogni quotidiani e la sua donna era particolarmente prolifica, entrambi si spezzavano la schiena di lavoro e fatica per nutrire e allevare la nidiata. La donna, moglie e madre, ovviamente sopportava per intero il peso di quella famiglia così numerosa di… “tartarughe” che poi, per fortuna, crescendo fungevano da madri supplenti per vocazione e necessità. Così, la seconda generazione (l’ultima figlia della covata che nascendo suo padre indispettito aveva voluto chiamare con un nome maschile, Raimondo!) inizia la sua adolescenza in America, alla ricerca di un padre che, guarda caso, si era risposato ad Harlem con una “Niger” dalla quale aveva avuto ben due gemelli maschi!

Così, la Seconda donna cresce in un’America della Seconda Guerra e, poi, dei primi movimenti femministi, mettendo al mondo una sola figlia (la Terza Donna) trascinata nei cortei di protesta per la parità dei diritti facendone, pertanto, da adolescente e poi da adulta una hippy irresponsabile che cambia uomini e mariti come i capricci e i vestiti. Una scellerata, insomma, che affida a sua madre “Onda” (auto-ribattezzatasi Raimonda!) la figlia appena nata (Mia, la Quarta donna) che non rivedrà mai più, fino alla sua età adulta in cui, dopo una sola e breve apparizione, sparirà di nuovo per inseguire i suoi amanti maschi e femmine e scrivere saggi assolutamente melensi sulla vita di coppia. Mia compirà il percorso inverso, tornando in Italia, a Milano, dove il suo italiano stentoreo appresso nelle cucine dialettali campane della nonna Onda la renderanno ridicola, costringendola a un’alfabetizzazione forzata nella lingua lombardo-milanese. Finalmente, con lei si arriva alla Quinta Donna, sua figlia, che malgrado i suoi limiti e costumi decisamente coatti riscopre i valori degli antenati, adeguatamente assistita dal fantasma della bis-bisnonna. Spettacolo che merita, decisamente, ben più delle due sole repliche attuali! Bellissimo e entusiasmante!

Aggiornato il 29 ottobre 2019 alle ore 12:20