L’esibizionismo e l’esuberanza dei media, i commenti urlati offerti da un certo tipo di televisione, qualcuno che ucciderebbe pur di rubare un paio di minuti di palcoscenico, sono il segreto del successo del divulgatore di conoscenza scientifica più famoso d’Italia, Piero Angela. La sua idea di tivù è opposta al malcostume del nostro tempo: offre opportunità di riflessione su temi scientifici con pacatezza, tolleranza, eleganza e semplicità. Lui sta sempre un passo indietro. Un atteggiamento che ha imparato a casa, quando era bambino.

È vero?

È così, era tipico dell’educazione piemontese: non esibire, non essere sopra le righe, avere rispetto per chi c’è intorno a te. La mia famiglia era così.

Non è così comune oggi. Per questo lo vogliamo sottolineare. Lei è un divulgatore scientifico. Ma chi è Piero Angela? Un benefattore della specie umana?

Io (sorride, ndr) faccio un lavoro che sembra normale. Prima ho fatto, per tanto tempo, il cronista, poi l’inviato, il corrispondente, il conduttore di telegiornale. Quindi, non facevo cose di scienza. Ho un grande interesse per la razionalità, per quella che è la strada maestra della razionalità, cioè il metodo scientifico, per cui devi sempre provare le cose che dici. In politica è un po’ più difficile. L’idea è cercare di capire le cose e risolverle. Allora, la scienza mi ha attratto per questo, per il suo metodo e poi per gli interessi, perché, in fondo, risponde alle antiche domande dei filosofi naturali: da dove veniamo, cos’è l’universo, com’è nata la vita, come si è sviluppato l’uomo, perché siamo diversi, la genetica, cosa c’è dentro la materia, la fisica, la fisica delle particelle, come funziona il corpo umano, la fisiologia, come funziona il cervello. Tutte le domande che l’uomo abbia un po’ di curiosità si pone. La scienza cerca di capirle e io di trasmetterle. Perché, in fondo, sono le cose più importanti della conoscenza. La conoscenza è in particolare capire il comportamento, capire come funziona l’intelligenza, ma anche l’emotività, la rabbia, la creatività. Questo ho cercato di capire io per primo. Infatti, il mio è il lavoro del traduttore. Però cerco anche di fare connessioni. Solitamente, questo gli scienziati non lo fanno perché raccontano le cose loro, ma io ho scritto 39 libri, tutti diversi, ed ho realizzato centinaia di documentari, tutti diversi, l’uno dall’altro, trovando sempre connessioni in tutto quello che poi, ogni volta, come in un basalto, dove ogni tessera compone un fondale oceanico o un gioco di scarabeo dove ogni pezzo, si può collegare ad ogni altro. È questo l’aspetto che mi è piaciuto di più di quello che ho fatto: capire prima io e poi scrivere i libri che avrei voluto leggere e fare i programmi che avrei voluto vedere. Allora, c’è questa passione che nasce dal piacere di capire e di trasmettere le cose. Allora, ci si rende conto che un grande pubblico di persone normali a cui può interessare di capire meglio che cos’è il mondo, com’è nato l’uomo, perché ci comportiamo in un certo modo, oppure cosa c’è nell’intimo della materia, che abbia un minimo di curiosità, non può non appassionarsi.

Le informazioni scientifiche che lei ha diffuso in tutti questi anni hanno il pregio della “comprensibilità”.

L’importante infatti è che siano informazioni accessibili. Io ho avuto molte testimonianze di persone che mi ringraziavano perché leggendo libri o sentendo informazioni non riuscivano ad andare oltre ad un certo punto. Perché perdevano un po’ il filo. Invece, seguendo gli esempi e procedendo coi meccanismi di base, allora il pubblico arriva. Noi lo vediamo nei nostri programmi che hanno un largo ascolto, in tutte le fasce di età e livelli culturali.

Gli insegnanti nel nostro Paese fanno molti sacrifici. Ma la scuola resta, comunque, carente sotto molti aspetti. Non risponde e non tutti i ragazzi ci vanno volentieri. Anche lei da piccolo se non erro si annoiava a stare a scuola. Adesso trascorre il suo tempo a studiare.

È vero. Questo capitava pure con la musica. Io avevo un compagno di scuola che era anche il mio amico del cuore, che era stato chiamato Ludovico in onore di Beethoven, predestinato a diventare un concertista. Cosa che divenne. Fu un grande concertista, ebbe un suo trio e fece i concerti in giro per il mondo e poi morì in un incidente aereo in Bulgaria. Quando andavamo alla scuola elementare intorno ai 7 anni, anch’io volli imparare a suonare il pianoforte e i miei mi comprarono lo strumento. All’epoca i giovani di buona famiglia venivano educati alla musica e non ebbi difficoltà a convincerli. Non c’era la televisione, si stava in casa e quello era un modo per acculturarsi e per fare qualcosa. Sia io che mia sorella prendemmo lezioni. Ma quegli esercizi erano di una noia mortale, così alla fine abbandonammo entrambi. Ci chiudevamo in bagno per sfuggire alla tortura e la cosa era finita lì. Però il pianoforte ormai era stato comprato e io avevo cominciato a suonicchiarlo da solo, con le canzoni che sentivo alla radio. Poi, mi sono perfezionato e in seguito, durante e dopo la guerra, avevo anche un amico di scuola che suonava la chitarra. Cominciammo a sentire delle radio americane che trasmettevano jazz, c’erano anche dei film sulla vita di John Miller e cominciammo a suonare anche noi un po’ di jazz. Divenni un bravissimo pianista dilettante e a quel punto tornai dalla maestra di piano per studiare seriamente e diedi il quinto anno di esame di pianoforte. Poi stavo preparando l’ottavo, quando cominciai a fare questo mestiere. Quindi, lasciai. Questo per dire che se non c’è la motivazione, se uno non si appassiona, nel mio caso al pianoforte, devi fermarti. Perché devi essere gratificato, non punito. L’insegnante va solitamente sul punitivo, non è premiante. Pensi ai cani. Se prendiamo i cani da droga vengono ammaestrati con i premi, non con le punizioni. Con le persone è lo stesso. Se dai il piacere di capire allora la gente viene, ed entra in queste stanze della conoscenza che sono bellissime, piene di cose. Anche se c’è qualcosa che non si capisce, si capisce l’essenza. Ho venduto quasi quattro milioni di copie di libri, anche questi numeri confermano ciò che dico. Io faccio il percorso in salita, fra i rovi, sui sassi e poi faccio fare lo stesso percorso in discesa ai miei lettori e ascoltatori.

Qual è il pezzo che preferisce suonare al pianoforte?

Sono stato via tredici anni dall’Italia ma ho sempre suonato il jazz. Il mio modello è Oscar Peterson, grande pianista di jazz e grande virtuoso, una grande tecnica e grande swing. Poi c’è Bach di quando suonavo musica classica, il mio autore preferito. Perchè suonandolo si scoprono degli intrecci di architetture straordinarie di quest’uomo, molto più che ascoltandolo. Anche la sigla del mio programma riflette questa mistura. Ho scoperto un complesso, gli Swingle Singers, che ha registrato molti pezzi di musica barocca. L’anno scorso ho realizzato un programma di quattro puntate, Quark musica. E anche lì avevo una sigla musicale sempre eseguita da questo complesso. Era un pezzo di Bach suonato e cantato dagli Swingle Swingers, ed era un po’ più allegro.

Con lei si può parlare di tutto o c’è qualcosa di cui non ama parlare?

Lo dico spesso, io non so niente ma di tutto. Uno si accorge che più studia più sa pochissimo, perché le cose da sapere sono talmente tante. L’importante è capire l’essenziale, le cose di base, poi ci addentra nella foresta. Bisogna sapere come vivono gli alberi, come funzionano, come crescono, come appassiscono. Poi sapere il nome di tutti o la storia di ognuno non è importante. Quello che mi ha colpito è stato che gli scienziati quando non sanno una cosa dicono “non lo so”, i politici no. Ha mai sentito un politico dire “non lo so”? Noi ci rassegniamo all’ignoranza. Essere coscienti delle cose che non si sanno è un vantaggio perché si costruisce sulle cose che si sanno, questa è la forza da Galileo in poi del metodo scientifico. Le cose, saranno molte o poche, ma sono provate.

“Grande sapienza è grande tormento: chi più sa, più soffre” recita il Qohelet (1, 18). Lei che ne pensa?

Una vita senza conoscenza è sofferenza. La conoscenza per me è gioia, perché il piacere di scoprire è continuo. Mi ha scritto una ricercatrice un po’ di tempo fa e la sua lettera è così bella perché parla della sua ricerca. Lei ha passato tante tribolazioni per le difficoltà di fare quello che va fatto. La ricerca è come fare l’artista, il violinista, il pittore. Non si pensa di guadagnarci. Anzi, chi lo fa è sicuro di non guadagnarci. Un ricercatore sa che non guadagnerà dal suo lavoro. I ricercatori sono sempre degli statali, anche quando hanno degli stipendi un po’ più alti in un’altra nazione.

Perché nel nostro Paese, pieno di persone illuminate, c’è chi ha ruoli importanti ricoperti da persone tanto impreparate? Perché con le sue meraviglie dev’essere ridotto nello stato in cui è?

Rispondere a questo equivarrebbe a vincere alla lotteria. È un problema di natura culturale. Intanto, perché come lei dice, il nostro è un Paese pieno di intelligenze, di persone creative, di artisti, di scienziati, di personalità di primissimo ordine, di gente che inventa, che ha inventato di tutto e non c’è bisogno di scomodare Leonardo o Galileo, lo si vede anche oggi nei finanziamenti che l’Unione europea dà ai ricercatori italiani sono fra i più premiati nella ricerca, ma lavorano all’estero il più delle volte. Però, anche qui, in Italia c’è tanta ricerca fatta bene. Dalle nostre università escono ragazzi bravi e preparati che il mondo ci invidia e vuole e non si capisce perché ci sia così poca attenzione. Ho scritto un libro che s’intitola A cosa serve la politica, il cui concetto di base è che la politica non ha mai creato ricchezza. Contrariamente a quanto uno pensi. In tutta la storia dell’umanità tutti siamo sempre stati poveri, ignoranti, malati, analfabeti al 90 per cento. Tutto è cambiato quando delle ruote hanno cominciato a girare, prima nei campi e poi nelle officine. Improvvisamente i contadini scendono dal 70 al 4 per cento in Italia, dall’Unità d’Italia ad oggi; in America a meno dell’1 per cento ed esportano cibo anche in Cina, per dire, perché la tecnologia figlia della scienza e dell’energia, che è scienza, ha dato all’uomo e ai governi, la possibilità di creare ricchezza. Ma questa macchina della ricchezza non viene usata bene. Prima non viene finanziata, oleata, premiata, né con meritocrazia né con tutto quello che serve per farla girare al meglio. Poi perché il sistema industriale, che è quello produttivo, non è messo nelle condizioni migliori per poter dare il massimo, inoltre, perché privilegiamo tante altre cose. La nostra cultura non ama la scienza, non la capisce, anche perché è una cosa recente. Io cito sempre mio padre, che era nato nel 1875. A quell’epoca si viveva come nell’epoca dei romani. Quindi una cultura moderna è dell’ultima generazione. Si vede anche nella scuola dove si studia il passato: la storia, la storia della filosofia, la storia dell’arte, il greco, il latino, la letteratura, il passato. Ma non il metodo della scienza, che permette di capire. La cultura è rivolta soprattutto verso il passato, che è un patrimonio straordinario. Però oggi viviamo in un’altra epoca, in una globalizzazione, come si dice sempre. E se non sei competitivo, muori. Bisogna capire che si ha bisogno anche di una cultura moderna per non fallire. Di questo noi cerchiamo di essere testimoni con i nostri programmi, con le nostre iniziative, con cicli di conferenze all’università, anche in streaming con scienziati, manager, industriali, filosofi, che spiegano un po’ come il mondo cambia. Ho cominciato a fare questo con il Politecnico di Torino. Adesso anche a Tor Vergata, all’Università di Trento. Perché anche l’università e la scuola hanno bisogno di aprirsi sul mondo nuovo. Anche perché il digitale chissà cosa ci sta per combinare, lo vediamo già, in tantissime cose. Basta l’esempio delle banche, ne chiudono a centinaia perché non sono necessari più tutti gli impiegati, gli sportelli bancari. Lo stesso con l’avvento dell’e-commerce per esempio Amazon. La gente compra i libri lì perché costano meno.

E arrivano direttamente a casa.

Si saltano dei passaggi. Ma anche tante altre cose, studi di avvocati. Le ricerche che si fanno dal computer. Il digitale è come l’acqua, entra dappertutto, toglie e aggiunge altro, al quale però bisogna essere pronti.

Quando lei era piccolo leggeva l’Enciclopedia dei ragazzi. Io, invece, leggevo I Quindici. Adesso, con Internet, ci sono i pro e i contro. Ci sono le fake news, che definisco un mezzo di distrazione di massa, perché servono a distrarre la popolazione ad occuparsi di qualcos’altro mentre nel Paese accade qualcosa di molto più serio su cui non si vuol puntare troppo l’attenzione, per quella ignoranza di cui parlava prima lei.

Internet è una cosa straordinaria ma anche pericolosa. L’informazione, la responsabilità di quello che viene detto sui giornali, in televisione, è di chi scrive. C’è un direttore responsabile che viene denunciato. Oggi il web è pieno di fake news e non succede niente. Tutti sono editori, hanno in mano uno strumento a costo zero che permette di fare interventi con parole, immagini, e trovare un pubblico pronto a seguire il pensiero magico, perché sembra sia quello vincente quando c’è ignoranza. Per questo trent’anni fa ho creato un comitato che si chiama Cicap (Comitato italiano per il controllo delle affermazioni sulle pseudoscienze). Vi partecipano alcuni fra i più importanti scienziati italiani facendo opera di educazione contro la pseudoscienza che dilaga.

Cosa pensa della morte?

La penso come Seneca. Che noi siamo stati morti per millenni e tutti torneremo ad essere morti.

La ringrazio moltissimo “Peter Quarky”.

Lei ha visto il Topolino in cui mi hanno dedicato un personaggio? Cosa ne pensa di questa cosa? Non è troppo? Magari qualcuno potrebbe storcere il naso.

Trovo, invece, che sia stato un pensiero delizioso, dottor Angela. Anche il fatto che sia lei a farmi queste domande alla fine dell’intervista. Comunque, l’ho trovata una grande idea, da parte dei disegnatori. Un bellissimo dono, un’opportunità per rimanere “per sempre”. Anche se lei resterà “per sempre”, in ogni caso. Un’incisione a fuoco nella mente e nel cuore di tutti gli italiani. Ma è anche un ulteriore modo per avvicinare i ragazzi. E nessuno storcerà il naso, anzi.

@vanessaseffer

Aggiornato il 11 aprile 2019 alle ore 13:59