Il Nome della Rosa, la grande fiction Rai

Tutti per uno e tutti per... la Rai! Alla presenza di un parterre stampa e media delle grandi occasioni, affiancati da un cast prestigioso, i nuovi vertici di Viale Mazzini hanno presentato la punta di diamante della loro idea di rinnovamento generazionale: “Il Nome della Rosa”, serial televisivo recitato in lingua inglese e diviso in quattro parti di due ore l’una circa, che andrà in onda in prima serata per quattro lunedì consecutivi, a partire dal 4 marzo. Per l’occasione, nella più che raccolta Sala degli Arazzi, è stata proiettata la Prima Parte in cui tutto ha inizio. E se le premesse sono queste, allora non vi è nessun dubbio che Eleonora Andreatta, direttrice di RaiFiction, abbia tutto il diritto di rivendicare come questo prodotto della tv pubblica sia “un passo chiaro e forte in direzione di una produzione Rai competitiva a livello internazionale, chiamata a rappresentare nel mondo la parte migliore della cultura e del patrimonio letterario nazionale”. E, a tal fine, osserva, il capolavoro di Umberto Eco, che ha venduto finora ben cinque milioni di copie, costituisce un ottimo spunto di partenza. Infatti, grazie alla sua complessità, il racconto si presta bene alla rappresentazione e dimensione seriale, essendo quella più adatta a raccogliere la sfida della riduzione in immagini del capolavoro di Eco.

Si è quindi ricercata con metodo, riferendosi al testo, la giusta misura per tenere assieme in un unico ensemble i suoi contenuti enciclopedici, la forte densità culturale e le tematiche attualissime come la tolleranza, nonché l’importanza della conoscenza e dei saperi. Le tecniche di ripresa, con contenuti effetti speciali, molta ottima recitazione e straordinarie riprese di primi piani e interni nelle ricostruzioni in “studios” (tra l’altro, quelli di Cinecittà, che restituiscono nel simbolico una forza impressionante alla rivitalizzazione dell’immagine della produzione televisiva italiana nel resto del mondo!) e in esterna, mettono in risalto la maestria della regia e, come è stato testimoniato da più componenti del cast, l’interazione costruttiva tra tutti i soggetti attivi, come attori, sceneggiatori e autori. Molto interessante, a mio avviso, lo spazio che è stato assicurato nella prima puntata a ricostruire con una certa rigorosità il contesto storico dell’epoca, relativo al contrasto tra papato avignonese e Re di Francia che, con una certa lungimiranza (del resto, al momento di dare l’incarico a Guglielmo, il barone guerriero, padre del suo giovane discepolo Adso da Melk, decreta che “la religione ‘è’ politica”, vedi Iran di Khomeini!) trova nel frate francescano di origine inglese, Guglielmo da Baskerville, una sorta di grimaldello teorico per minare dall’interno una chiesa corrotta e fortemente secolarizzata, nominandolo come suo rappresentante nella disfida teologica, che oppone il resto del clero ai seguaci di S. Francesco, sulla reale condizione di povertà assoluta del Redentore della cristianità.

Il che, per l’epoca, non rappresentava affatto un argomento secondario, come si può ben capire: se la disputa fosse stata vinta dai francescani, la Chiesa medioevale sarebbe stata terremota letteralmente dall’interno e obbligata all’abbandono radicale del suo lusso sfrenato e della passione viscerale per il potere temporale, che abitava soprattutto le alte e medie gerarchie! Così come altrettanto interessante è l’approfondimento, romanzato e anche un po’ “feuilleton”, sulla storia dell’eresia dolciniana dei frati guerrieri (cari a Eco, che aveva raccomandato alla produzione di “non trattarli male”, nel corso della relativa dinamica lunga e complessa sulla cessione dei diritti d’autore!) che lottarono con le armi per la liberazione dei popoli oppressi, introducendo istituti libertari rivoluzionari nei costumi morali e sessuali dell’epoca di assoluta avanguardia rispetto a oggi: quindi, eretici pericolosi da sterminare armi in pugno per la difesa dei poteri clericali di quel periodo storico. Bellissima è l’immagine di Frate Remigio, uno dei leader dolciniani, rifugiatosi nell’abbazia assieme al suo sodale Salvatore, quando nel fare la carità a un popolo dolente di straccioni in fila per una monetina, sente il passato scorrere come una potente droga nelle sue vene e rivive quelle scene perdute di lotta e d’amore.

Una notazione sul colore, infine, di questo straordinario prodotto. Come ha precisato il regista Giacomo Battiato, il Medio Evo non è stato affatto un periodo “buio” nello spirito delle persone. Vedi la luce e l’ispirazione di Giotto. Un po’ dappertutto, quindi, si sono inseriti forti innesti di colore nei costumi sempre sgargianti dei poverissimi e dei molto ricchi. In fondo, molti pittori del passato, Caravaggio incluso, non si sono fatti grandi domande sulla luce: l’hanno collocata nei loro quadri come ritenevano più bello e interessante per illuminare le scene che dipingevano. Del resto, anche i pazienti in analisi non raccontano forse al loro terapeuta: “stanotte ho fatto un film”? E, dice Battiato, “un sogno del passato è un sogno al quadrato! Sotto le fondamenta di palazzo Altemps non c’è, forse, una sezione in profondità di strada romana con resti di case di colore vivo giallo, verde, ocra, etc.? Le città erano così anche nel Medio Evo, e le persone indossavano costumi coloratissimi!”. Mi auguro che la stessa luce accolga questa sfida internazionale che l’Italia intende portare alle Major statunitensi delle fiction di successo globale, come fanno sperare le prevendite realizzate in tutto il mondo!

Aggiornato il 01 marzo 2019 alle ore 15:06