Un classico di Eduardo al Teatro di Roma

I fantasmi? Proiezioni distorte e malandate della nostra mente, o pura realtà? Per Eduardo De Filippo, con la sua opera teatrale “Questi fantasmi” (in scena al Teatro Argentina fino al 6 gennaio 2019, per la regia di Marco Tullio Giordana), le due cose sono entrambe… vere! Il circuito relativo menzogna-verità è così costruito: un marito, Pasquale Lojacono, incapace e fallito (ma che nutre purissimi sentimenti nei confronti della sua compagna di vita); una moglie ben più giovane e fedifraga, Maria, corredata di amante sposato, molto ricco e spregiudicato. Lui, Alfredo, il terzo uomo, è la manna che arriva insperata al credulone che la scambia per il sottoprodotto della presenza di spettri benefici e amici. Pasquale, infatti, colto dalla miseria nera di colui che ha vergogna di dover negare a sua moglie il denaro per acquistare un paio di calze, è andato a stare ad affitto zero in una casa di diciotto stanze e decine di balconi, che la credenza popolare vuole sia abitata da più o meno pacifici fantasmi. Unica contropartita a quel prezzo inesistente: ripetere un preciso rituale scaramantico due volte al dì, per ogni giorno trascorso in quel lussuoso e inquietante appartamento.

Contribuisce ad avvalorare il mito del castello di fantasmi (366 stanze in tutto, una diversa per ogni giorno dell’anno per gustare il piacere di una o più amanti nel XVII secolo) la testimonianza isterica di una donna matura, Armida, che scambia le sue voglie represse col visionario tentativo di abuso da parte di un’entità fantasmatica interna, ma da lei proiettata olograficamente sul terrazzo di quel grande palazzo nobiliare. Il tutto dominato dall’onnipresenza di un vicinato sempre vigile a ogni ora del giorno e della notte, che svolge diligentemente il ruolo di spia, impiccione e pettegolo. L’80per cento dei tempi di scena è devoluto a tenere buono questo mostro onnivoro, nascondendo sotto il tappeto del Pupo pirandelliano la realtà implacabile dei fatti del disonore che, però, tutti vedono e sanno! Una questione particolare va riservata alla radice del linguaggio. Quello napoletano ha il portato e il precipitato di una saggezza millenaria e di una civiltà del tutto peculiare, che solo chi è nato, vissuto e sopravvissuto con mille espedienti e sicura fame ai vicoli e alle mille insidie del suo spazio socio-urbano, è in grado di tradurre in frasi e modi di dire compiuti, peculiari ed esclusivi, come avviene per l’anziano portiere dello stabile, mariuolo quanto basta e regista occulto delle vite altrui.

Oggi, al contrario di quanto accadeva agli esordi colti della televisione di Stato, l’espressione dialettale e le sue culture tradizionali sono estranee alla quotidianità degli spettatori italiani e, quindi, anche in questa versione del capolavoro eduardiano è giocoforza la scrittura e la dizione in lingua volgare. Quando il teatro è grande però, non ci sarebbe bisogno di traduzione: quello di Eduardo è universale e produce commedie con meccanismi talmente perfetti al suo interno da risultare intuitivi e piacevolmente contemporanei. Il balcone rappresenta il “di fuori”, l’esterno che fa tutt’uno con l’esteriorità ipocrita, versione paranoide della propria maschera. Così anche il matrimonio, le sue stanchezze e la sua routine assume le forme arrendevoli di ciò che si consuma, trasformandosi in luogo di perdizione del Sé. Salvo poi rigenerarsi nel voler credere ancora una volta che tutto possa tornare come prima. Ma sono racconti di un’altra epoca, in cui era di casa la tragedia perché non esistevano gli strumenti legali per archiviare una convivenza avvelenata, cancellandone gli obblighi sociali, per poi reimbastirne un’altra, con identiche illusioni e speranze. Allora era solo possibile fuggire, divenire un clandestino e un paria sociale per aver violato un tabù etico-sociale.

Aggiornato il 20 dicembre 2018 alle ore 11:28