“Echoes” al Teatro India

“Echi”. Quelli dell’anima, del corpo e della mente. Magistralmente evocati nell’opera “Echoes” del commediografo Henry Naylor, messa in scena fino al 29 aprile al Teatro India di Roma dal giovane e brillante regista Massimo Di Michele e ottimamente interpretato dalle due attrici femminili Francesca Ciocchetti (Samira) e Federica Rosellini (Tillie). Lo scenario è arido come un deserto, cadenzato da diciotto corte gomene di gomma, arrotolate come serpenti e poste ai lati del quadrilatero di scena, completato da un altro ammasso simile dello stesso materiale e di identico colore giallo, decentrato verso lo sfondo della parete della rappresentazione. Loro, oggetti di nessun valore ma altamente simbolici, rappresentano gli anelli di tortura, le trappole e lo scomodo giaciglio per due giovani donne, accumunate casualmente in uno stesso spazio d’interpretazione come per effetto di una finestra temporale, in cui due persone vissute a distanza di secoli l’una dall’altra si incontrano e si raccontano.

Tillie, di famiglia borghese, per sottrarsi alla monotonia della vita di provincia, sposa per noia un militare che presta servizio in Afghanistan per la Compagnia delle Indie. Sogna di dare un figlio a un’Inghilterra spietata, tronfia dei suoi successi imperiali per cui le vite degli indigeni autoctoni valgono nulla rispetto alle preziosissime rotte dell’oppio. Si spiantano agrumeti, campi coltivati a cereali sostituendoli coattivamente con le piantagioni di papavero e si lascia che lievitino a dismisura i prezzi dei beni alimentari, costringendo così una popolazione di per sé povera ma autosufficiente a divenire stracciona, mendicante e affamata che fruga nella spazzatura dei conquistatori nutrendosi dei resti delle loro scorie alimentari. L’altra, Samira, di famiglia siriana immigrata, è una schiava del nuovo modello contemporaneo dei consumi e lavora come impiegata in un libreria del paese. Entrambi, nate a distanza di tempo nella stessa cittadina inglese di provincia, Ipswich, nel Suffolk, sono sconvolte dall’identica onda d’urto dello sdegno irreparabile per il comportamento immorale e spietato di un Occidente maschile, violento e disumano, senza Dio né onore.

Così, Samira disgustata dal cinismo dei suoi clienti rispetto al dramma epocale dei profughi siriani, sceglie di raggiungere in Medio Oriente il suo bel capitano dell’Isis, un “foreign fighter” inglese, mentre l’altra si affida a un giovane ufficiale dell’impero coloniale di Sua Maestà britannica. Figlio del fuoco e del demonio, il primo, che usa il Corano per giustificare la sua follia omicida, esibita nelle parti più abiette, che vanno dalla decapitazione in massa dei prigionieri sunniti ma “eretici”, al sequestro e alla riduzione in schiavitù delle giovinette bambine yazide (confronta “L’ultima ragazza” di Nadia Murad, che testimonia in prima persona delle atrocità commesse dai miliziani dell’Isis), al contratto di matrimonio di una settimana, ipocrita licenza per avere donne di piacere a tempo, fino a disporre nell’arbitrio più totale della vita e della dignità altrui. Esattamente come il tenente inglese, che frusta a sangue un innocente mendicante colpendolo sul viso dinanzi alla giovane moglie e che, per finta rappresaglia, stupra due poverissime giovinette della locale comunità afgana.

Due donne, capaci di evocare con la sola voce, gestualità e il supporto di un sonoro lancinante un Pathos autentico che arma la mano dello spettatore, portandolo a condividere la loro giustizia sommaria e il sacrificio finale delle loro giovani vite, senza alcuna speranza per un mondo migliore.

(*) Per informazioni, prenotazioni e biglietti: Teatro India

Aggiornato il 23 aprile 2018 alle ore 20:03