“Odissea A/R”, applausi alla pièce della Dante

Dedicato ai senza approdo. Coloro, cioè, che non hanno o, invece, avrebbero una terra, un’isola e una donna che li aspetta alla fine del loro tormentato viaggio terreno. Per pochi giorni, lo spettacolo “Odissea A/R” di Emma Dante è andato in scena al Teatro Argentina di Roma. La tournée nazionale per febbraio comprende Pordenone (il 9 e 10 febbraio al Teatro Verdi) e Pistoia (dal 17 al 19 febbraio al Teatro Manzoni). Nel merito, ora: contrariamente ai riti precedenti, la grande artista siciliana gioca la carta della “striscia di Linus”, che ricopre con i suoi chilometrici panneggi di veli e di stoffe il body di Penelope e fa da pancarte cromatico a una serie davvero intelligente di rappresentazioni cult degli eventi narrati da Omero. E forse non poteva essere diversamente.

La compagnia di giovanissimi (bravi!) commedianti è una selezione di allievi-attori della “Scuola dei mestieri dello spettacolo” del Teatro Biondo di Palermo. Tutta energia, cori, grumi scenografici e danza moderna. Intuisco (questo è il secondo dei blitz della Dante nelle viscere del capolavoro omerico) che assisteremo ad altri passaggi, forse meno colorati e più intimistici, dove i sentimenti sono filtrati al setaccio fine di una “vis rigenerandi” di quei pensieri senza pensatore (che, cioè, costituiscono condotte e significati ancestrali della nostra specie) senza confronti nello spettacolo dal vivo. Pensieri in cui il corpo intuisce le cose prima della mente!

La tecnica della Dante (absit iniuria verbis) mi ricorda certe costruzioni dei quadri di Van Gogh, con i suoi prodigiosi girasoli, la cui vitalità era stata catturata tra nuvole di assenzio macerato da stranianti e allucinanti solitudini e, soprattutto, dialogando con le cose della natura per il tramite straordinariamente efficace della follia. I ragazzi sono per Emma un prato di girasoli e l’autrice scenografa è vento che, nel capriccio delle sue correnti umorali, ne disegna le curve puntiformi, facendo vorticare i suoi modi d’onda perennemente orizzontali, perché la vita (sembra dire) è ben piantata: si flette, si adatta, ma raramente cede di schianto. Così, il suo Odisseo viene salvato e indirizzato verso il ritorno per il capriccio di Dei ridicoli. Come un Zeus culturista tutto muscoli e vanità, i cui ordini sono annunciati a una Calipso ninfomane da un Hermes gay, con Atena vestita da maschiaccio di strada. Giusto, mi pare, che gli uomini facciano bella figura con divinità tanto narcise e perditempo, che costruiscono Ciclopi mangiacristiani e si dimenticano anche delle più elementari opere di giustizia per gli uomini. I quali, se non avessero l’astuzia, sarebbero preda indifesa dei Proci parassiti e fannulloni, dediti alla razzia e alla vessazione dei più deboli.

Ed è l’astuzia di Penelope che alza muri impenetrabili per tenere a bada i bassi istinti dei suoi pretendenti che, però, e qui sta la novità, l’assediano persino dentro le difese intime, prendendo come prede e ostaggi le sue stesse ancelle che, per amore lascivo, contestano perfino la loro regina, rea di impedire loro di concedersi a iosa e a piacimento agli sgraditi ospiti. E il campo di primo piano dei girasoli è continuamente scosso da folate di colori accesi e intensi: ventagli che si scuotono freneticamente (simbolo ricorrente nelle opere della Dante, dove si concentra tutto il non detto della vanità, dell’isteria e dell’insoddisfazione provocatoria); costumi che volano in aria, seguiti da incessanti vestizioni, per accompagnare la sterile ricerca di Telemaco per un padre perduto e la sua voglia di giustizia adolescenziale, che nulla può contro il ferro degli adulti che ne assediano la madre. I dialoghi riecheggiano i versi omerici, aggiornati rispetto alla versione ottocentesca del Pindemonte, accompagnati da gesti vitali, in cui i volti e le mani che li accarezzano sono carichi di impulso, come le frecce che colpiranno le gole degli ingordi e dei malfattori finti nobili.

La Dante tende l’arco, infaticabile, lanciando i suoi attori-oggetti come quando li organizza in sequenza lineare per descrivere la trireme e i suoi vogatori. E, ogni volta, quell’energia arriva a bersaglio. Lo spettatore è scosso e commosso, senza capirne le ragioni, attirato come in un gorgo da un racconto lungo millenni, immutato però nella sostanza del significato della presenza umana su questa Terra. Stavolta, lo spettacolo non necessita di alcun traduttore o intermediario della critica colta, ma va direttamente - come un’ostia sconsacrata - nelle mani aperte a calice di chi lo riceve!

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 18:22