Nessun luogo è lontano

Conoscete l’Aventino culturale? La collina dei rancorosi impenitenti auto-confinatisi per scelta in fortini-baita in cui l’unico calore emana dalla legna da ardere? Ciocchi, duri come una testa cocciuta, si chiamano quei conci di legno, sottratti all’anima generosa del bosco e alla polpa di tronchi venuti giù per opera d’ascia o delle forze della natura. Anche i caratteri fanno parte di quella selva speciale di alberi senzienti, spogli d’inverno e rigogliosi di foglie nella stagione buona; alcuni seccati per sempre; altri che rinascono dalle radici sane e molti ancora dai rami nascenti, per catturare nuova linfa e depurare l’aria d’intorno. Il bel racconto di “Nessun luogo è lontano”, scritto, condotto e recitato da Giampiero Rappa, per le musiche di Stefano Bollani, in scena al Teatro della Cometa di Roma fino all’11 di dicembre, è un po’ la storia di un albero inaridito, nato da un seme caduto nella pietraia e che, in fondo, si crede anche lui roccia, sostanza inerte, che non si dà più il dono della parola.

E chi agita l’aria all’interno di quella baita sperduta? Innanzitutto lui, Mario Capaldini, che rumina veleni inconfessati e inespressi, nemico del mondo verso il quale, come fece Papa Celestino V gettando alle ortiche la sua tiara per scegliere la penitenza e il romitaggio, oppose il gran rifiuto al ritiro di un prestigioso premio letterario, decidendo di scomparire per sempre da quella giungla lussureggiante. Perché, quel che si presenta come un paradiso in terra è, in realtà, il Regno del Serpente, in cui nulla di ciò che appare è realmente buono da vivere, come da mangiare. I terrestri, par di capire, sono i più grandi cannibali del mondo: si nutrono di prede vive e le uccidono lentamente lasciandole a macerare nell’acido dell’invidia, del rancore e della negazione d’amore. E chi osa disturbare cotanto impegno autodistruttivo?

La bell’Anna, in primo luogo: una giovane giornalista appena rientrata dall’inferno di una Baghdad perennemente in fiamme e che, per caso, viene incaricata dal suo direttore di sostituire una collega in stato avanzato di gravidanza per intervistare lui, il Capaldini, lo scrittore famoso, la sfinge di pietra che dice e non dice, scruta e non vede, parla e non si ascolta. Imperio maschile e femminilità pluriaffermata, coraggiosa e indomita, recitano lo scontro di sempre: quello intergenerazionale e, soprattutto, degli occhi aperti dell’una contro lo sguardo cieco, chiuso sul mondo, dell’altro. Mario, che ha reciso i deboli legami con gli unici vicini del circondario, un contadino e sua moglie che non compaiono mai, ma dei quali si avverte la presenza. Mario, che vorrebbe addirittura essersi disfatto del suo più solido legame di sangue con la sua unica sorella, famosa psichiatra, che tiene rubriche colte alla radio e che suo fratello ascolta di nascosto, come un ladro che non vuole lasciare impronte. Poi, Ronny (un esuberante, vitalissimo Giuseppe Tantillo), il secondo invasore, che piomba all’improvviso e porta di tutto, dal vento di tempesta dei suoi scarsi diciotto anni, carichi come un archibugio di grosso calibro di ormoni, dolori e delusioni giovanili, fino a travolgere il falso eremita con l’impeto dei suoi ricordi affettivi mai dismessi, per quello strano zio con cui ha condiviso i momenti più felici della sua adolescenza. Ronny che “occupa” la baita; che non si fa scacciare; che va e torna e costringe al pianto chi non avrebbe più voluto sentire un solo refolo d’affetto nella sua nuova non-vita. Come va a finire? Vedere per credere.

Aggiornato il 01 aprile 2017 alle ore 15:16